I diritti delle persone omosessuali, bisessuali e trans in Italia

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Una riflessione in occasione della giornata del 17 maggio sullo stato dell’arte dei diritti e delle discriminazioni che colpiscono le persone LGBT.

di Antonio Rotelli

 

Ogni anno il 17 maggio in 130 paesi del mondo si celebra la Giornata contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia. Proverò a non dare per scontato che tutte e tutti sappiano di cosa si tratta.
Innanzitutto, stiamo parlando di persone gay, lesbiche, bisessuali e transessuali, in sigla LGBT, una minoranza non piccola di persone che ha in comune un orientamento sessuale o un’identità di genere che sono diverse da quelle della maggioranza dei cittadini. Sia l’orientamento sessuale che l’identità di genere fanno parte dell’identità personale di ciascuno – una delle parti più intime ma anche socialmente rilevante di ciascuna e di ciascuno di noi, protette dalla Costituzione come diritti fondamentali.
Dal racconto delle discriminazioni subite e dei diritti delle persone LGBT in Italia, cercherò di far emergere il senso e l’importanza di una ricorrenza come quella del 17 maggio.
Perché le persone LGBT continuano a essere a rischio di discriminazione?
Non c’è un motivo razionale. Avviene sulla base di preconcetti e pregiudizi.
In Italia le persone che credono che gay, lesbiche e bisessuali siano molto o abbastanza discriminati sono il 69%. Lo ha rilevato l’Eurobaromentro nel 2019, lo scorso anno. Quasi 7 persone su 10.
Ci sarebbe di che essere contenti perché ad una consapevolezza diffusa dovrebbe corrispondere una quasi assenza della discriminazione.
Ma non è così.
Ci sono pur sempre 3 persone su 10 che pensano che la discriminazione non ci sia; quasi lo stesso numero (26%) pensa che le persone omosessuali e bisessuali non dovrebbero avere gli stessi diritti di quelle eterosessuali – e questo dato è peggiorato rispetto alla precedente rilevazione del 2015 (+4%).
Addirittura il 34% pensa che le relazioni sessuali siano sbagliate tra persone dello stesso sesso (anche questo è un dato peggiorato +2%).
Il dato peggiore riguarda, però, le persone trans: il 42% degli italiani pensa che non dovrebbero poter modificare i loro documenti perché corrispondano alla loro identità di genere e questo dato è in pericoloso aumento dal 2015 (+13%); mentre quelli favorevoli sono diminuiti del 15% (ora sono il 43%).
Già questi pochi dati disegnano un quadro contraddittorio della realtà italiana che trova un corrispettivo nella legislazione e nelle prassi – che tutelano dalle discriminazioni ma non tutte e non tutte allo stesso modo, che a livello di principi garantiscono le persone LGBT ma poi non sono declinati perché tutti i diritti siano riconosciuti.
Questa è oggi la situazione Italiana.
Partiamo da quando si è piccoli, in famiglia: non ci facciamo caso, ma la stragrande maggioranza dei genitori e dei parenti danno per scontato che i figli o nipoti siano o cresceranno eterosessuali e cisgender (parola che vuol dire avere una identità di genere conforme al genere e al sesso assegnato alla nascita).
Dal modo di vestirci, dai giochi che scelgono per noi, da quello che possiamo dire o fare e non fare, spesso non danno ascolto a ciò che comunichiamo loro e che rivela chi siamo e chi vogliamo essere. Questi aspetti dell’educazione in famiglia sono messi poco in discussione, la responsabilità genitoriale è scambiata per quello che non è – magari vorrebbero farci assomigliare a loro, i nostri genitori, non nei valori e nei principi, ma negli aspetti più intimi e personali della nostra identità. Ma non può essere così, ciascuno è e deve essere aiutato a essere se stesso. Essere genitori è complesso, ma in questa complessità va incluso il dovere dell’attenzione all’orientamento sessuale e all’identità di genere dei figli e delle figlie quale che esso sia e di cui i figli saranno pienamente consapevoli mano a mano che crescono.
Oggi non esiste una disposizione legislativa che espressamente garantisca l’orientamento sessuale e l’identità di genere dei fanciulli e degli adolescenti, nondimeno, tutte le norme nazionali o internazionali che li riguardano includono la protezione di questo aspetto. Si prenda, a esempio, la convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e degli adolescenti che stabilisce che i genitori devono essere guidati dal preminente interesse dei bambini nelle questioni che li riguardano (art. 18, comma 1) e pone il divieto di essere negligenti nei loro confronti (art. 19, comma 1) per ogni aspetto fisico e morale.
Così, è accaduto che in Italia, in quei non molti casi che sono riusciti ad arrivare all’attenzione dei tribunali sono stati garantiti i diritti dei figli omosessuali.
A esempio, sono stati riconosciuti i maltrattamenti e gli abusi di un padre che non accettava il figlio che aveva fatto coming out (decreto del Tribunale per i minorenni di Milano del 25 marzo 2011) o hanno stabilito l’obbligo della madre, unico genitore, di mantenere il figlio che aveva costretto ad allontanarsi da casa perché riteneva la sua omosessualità “contro natura” e contraria alla sua fede religiosa (Tribunale di Reggio Emilia, decreto del 4 ottobre 2008).
Oggi finalmente cominciano a esserci in Italia alcune pochissime strutture dedicate all’accoglienza di ragazzi e ragazze gay, lesbiche e trans cacciati di casa dai genitori, ma se da un lato serve l’impegno a crearne di più per non abbandonare questi ragazzi e ragazze, l’impegno principale deve essere culturale e familiare perché non succeda più che un figlio o una figlia vengano mandato via di casa o siano costretti ad allontanarsi per la loro identità personale.

Poi c’è la scuola: la scuola è il posto dell’inclusione e della crescita, dove tutti i bambini e le bambine si formano. A scuola ci vanno tutti – è obbligatoria fino a 18 anni – senza distinzione di genere, di ceto, di origine etnica, di lingua, di religione. La scuola è il più bel diritto che abbiamo e anche un dovere.
Però a scuola non ci vanno quei bambini e quelle bambine che crescendo capiranno di essere lesbiche, gay o trans. Non fraintendetemi, fisicamente questi bambini a scuola ci sono, ma anche la scuola li trascura – rende invisibile tutto o molto di quello che ha a che fare con orientamento omosessuale e identità trans.
E così facendo crea un doppio danno: lo crea ai ragazzi e alle ragazze che dal silenzio o dall’ostilità verso questi aspetti che li riguardano ricevono messaggi negativi e svalutativi della loro identità in formazione; lo crea ai ragazzi e alle ragazze eterosessuali e cisgender che hanno bisogno di ricevere informazioni e conoscenze corrette, complete, che educhino al valore delle differenze di cui ciascuno è portatore.
La scuola – con pochissime eccezioni – dà per scontato che tutti i bambini e le bambine siano eterosessuali, pur sapendo o dovendo sapere che non è così e che gli orientamenti sessuali e le identità di genere hanno la medesima dignità e sono parimenti garantiti dalla Costituzione.
Certo, esiste confusione anche a livello ministeriale nel dare attuazione a interventi di formazione degli insegnanti o di attività nelle scuole riguardanti tutti i temi che hanno a che fare con omosessualità e transessualismo. Però, per quanto poco, le linee guida nazionali del 2017 per la prevenzione di tutte le forme di discriminazione prescrivono che le scuole si occupino anche dell’orientamento sessuale, essendo fattore di possibile discriminazione.
Il contrasto tra famiglie e scuola sulla possibilità di affrontare a scuola questi temi è solo frutto di un grande equivoco e di una strumentalizzazione – dal mio punto di vista – perché bambini e bambine hanno diritto a ricevere e divulgare informazioni e idee di ogni specie, come dice la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (art. 13), soprattutto su aspetti dell’identità che sono tutelati come diritti fondamentali e questi non possono essere sacrificati, non garantiti a scuola, come in famiglia, per una tendenza culturale, credo religioso o opinione personale dei genitori, degli insegnanti o delle scuole, pubbliche o private che siano.
Lo dice anche la Corte europea dei diritti umani: esporre i ragazzi a messaggi positivi sull’omosessualità non determina “una diminuzione del diritto dei genitori di spiegare e avvertire i propri figli, di esercitare le loro naturali funzioni genitoriali, o di guidarli su un percorso in linea con il loro credo religioso o le proprie convinzioni personali”. I ragazzi che ricevono questi messaggi positivi sono esposti a idee di diversità, uguaglianza e tolleranza e l’adozione di questi punti di vista può solo condurre a maggiore coesione sociale (Bayev e altri contro Russia, 13 novembre 2017, § 82). In più, dice la Corte, sulle questioni come queste, che sono considerate sensibili – ma a mio avviso questa categoria non ha ragione di essere con riferimento ai diritti di cui stiamo parlando – i punti di vista dei genitori, le politiche educative e i diritti di terze parti devono essere bilanciati nel senso che le autorità non hanno altra scelta che adottare il criterio dell’oggettività, del pluralismo, dell’accuratezza scientifica ritenuta l’utilità di certi tipi di informazioni per un pubblico giovane.
La mancanza a scuola di un approccio affermativo e positivo all’omosessualità e all’identità di genere è causa di un maggior numero di abbandoni scolastici, di suicidi e rischi per la salute delle persone omosessuali e trans adolescenti, come ha affermato l’Unesco nella dichiarazione di Rio del 2012.
Se proviamo a guardare la scuola anche dal punto di vista degli insegnanti, ancora una volta l’orientamento sessuale non può essere ragione di discriminazione. Ma accade che anche gli insegnanti siano discriminati: a esempio, un’insegnante creduta lesbica e convivente con una donna era stata licenziata pochi anni fa da una scuola cattolica italiana, ma per fortuna il tribunale ha condannato la scuola perché l’orientamento sessuale, come l’identità di genere o altre caratteristiche personali non incidono sulla professionalità degli insegnanti.

Una volta entrati nella vita adulta le persone omosessuali e trans si confrontano con l’amore, la costruzione della propria famiglia, la genitorialità, il mondo lavorativo e tutte le relazioni sociali. E anche qui ci sono pregiudizi, discriminazioni e diritti in certi casi ‘molli’.

Partiamo dal lavoro, dove dal 2003 esiste una legislazione che vieta ogni forma di discriminazione nei confronti delle persone omosessuali sul lavoro, dall’assunzione, alla formazione, alla progressione di carriera.
Non esiste una corrispondente disciplina per le persone trans, ma la Corte di giustizia ha affermato che a esse si applica tutta la disciplina normativa in materia di parità di genere, che dovrebbe assicurare una tutela ampia, non solo limitata al mondo del lavoro, ma questa indicazione della giurisprudenza, che è entrata poi nella direttiva europea, è come ignorata dagli operatori del diritto.
Grazie alla normativa del 2003 anche nell’ordinamento militare dal 2010 è stato previsto che in nessun caso possono essere discriminate le persone omosessuali. Anche in questo caso, la situazione pare meno certa per le persone transessuali, ma ho personalmente seguito con successo, qualche anno fa, il caso di una persona transessuale che ritengo essere stato il primo in Italia – e forse finora l’unico – che continua a fare carriera militare e non è stata spostata nei ranghi civili. Insomma, non esiste e non può esistere incompatibilità tra essere omosessuale o fare la transizione ed essere militare.
Per fortuna che esiste la normativa in materia del lavoro perché le discriminazioni sono non poche, spesso difficili da provare in giudizio e a volte esibite con baldanza, come è stato il caso di un noto professionista che in una trasmissione radiofonica – e quindi con grande diffusione – aveva dichiarato che nel suo studio non avrebbe mai assunto una persona omosessuale, anche se fosse stato un bravo professionista. Per queste espressioni – che non si possono derubricare a espressioni della libertà di pensiero – perché sono in grado di disincentivare le persone omosessuali dall’inviare la propria candidatura presso il suo studio professionale, creando una vera barriera all’accesso al lavoro, il professionista è stato ritenuto responsabile in due gradi di giudizi e si aspetta di sapere se questa sua responsabilità sarà confermata definitivamente dalla Cassazione tra non molto tempo.

Al di fuori del mondo del lavoro, però, le norme non sono così altrettanto chiare nonostante i casi di discriminazione ancora una volta si sprecano. Così la garanzia dei diritti si fa meno precisa e più farraginosa. Faccio un esempio forse noto ai più.
Ogni anno, d’estate, puntualmente si presenta il caso dell’albergo o bed and breakfast che rifiutano di ospitare coppie omosessuali. Questo rifiuto non si può fare, perché un esercente non può rifiutare le prestazioni senza un motivo legittimo, ma mancando una normativa generale in materia anti-discriminatoria, si può ottenere che l’esercente riceva una sanzione amministrativa e gli si deve fare causa per il risarcimento del danno per le spese sostenute e la lesione della dignità personale.

La questione dei diritti e delle discriminazioni si fa più complessa quando si arriva a parlare delle coppie.
La ricerca dell’Eurobarometro dello scorso anno che ho citato all’inizio, ha rilevato che il 33% dei genitori sarebbe completamente a disagio se un figlio/a fossero in coppia con una persona dello stesso sesso.

Come sapete dal 2016 esistono le unioni civili che riconoscono diritti e doveri alle coppie dello stesso sesso in maniera assimilabile al matrimonio, ma non del tutto coincidenti e con delle differenze che intaccano la dignità delle persone.
Forse è utile ricordare che il matrimonio nel nostro ordinamento è riconosciuto come diritto fondamentale, però esiste anche un altro diritto fondamentale, che è quello alla vita familiare. Sono due diritti distinti, ma l’Italia fatica a riconoscerli come separati.
Per ragioni sulle quali non posso soffermarmi in questo video, si tende a pensare che la famiglia sia solo quella fondata sul matrimonio. Ecco che, nonostante la legge sulle unioni civili – o grazie a essa – si sono stratificate due classi di cittadini: quelli di serie A, a cui sono garantiti due diritti fondamentali; quelli di serie B, a cui ne è garantito solo uno e anche malamente. Il pensiero corre a una sentenza dello scorso anno della Corte costituzionale in cui è stato possibile sentire l’eco di concetti che si sperava superati e che tenderebbero a ritenere famiglia solo quella formata da un uomo e una donna.
Non sembri strano che quando questi concetti tornano a galla il motivo è dato dalla genitorialità, che in Italia si cerca di mantenere riservata alle coppie sposate oppure non sposate ma eterosessuali, negando alle coppie dello stesso sesso l’accesso a tecniche di fecondazione medicalmente assistita e negando l’evidenza dell’esistenza di numerosi figli e figlie di coppie dello stesso sesso e il fatto che questi figli crescono non meno forti e felici o più problematici di quanto accada ai figli di coppie eterosessuali.
È più facile omettere di chiamare “famiglia” le coppie dello stesso sesso o ostinarsi a non considerarle tali quando si parla di altri diritti, ma quando in gioco ci sono figli e la genitorialità è come se una maschera andasse giù e i nodi della diversa considerazione che si ha di queste coppie venissero a galla.
La legge sulle unioni civili a esempio esclude la genitorialità delle persone omosessuali, se non per una possibilità, ovvero l’adozione in casi particolari che è prevista dalla nostra legge.
In pratica quando due persone dello stesso sesso hanno un figlio, anche se il progetto di genitorialità è stato congiunto, al genitore non biologico rimane solo la possibilità di adottare il suo stesso figlio per vedere giuridicamente riconosciuto il rapporto che lo lega al figlio. Però questa adozione rimane revocabile, non crea rapporti di parentale con i nonni, gli zii e i cugini, lascia non poche problematiche per vicende che dovessero accadere prima che l’adozione sia pronunciata. Quindi non è un’adozione piena, non garantisce pienamente il bambino e nei fatti è un tentativo di ostinarsi a non riconoscere la capacità genitoriale delle persone omosessuali.
Esistono casi di coppie dello stesso sesso che hanno ottenuto di essere riconosciuti genitori fin dalla nascita dei figli o che hanno ottenuto un’adozione piena, ma si tratta di casi particolari o giurisprudenziali, sui quali non posso soffermarmi per la brevità di questo video. Tuttavia, non riguarda la generalità delle coppie, né riguarda diritti acquisiti per tutti. Non entro neppure nel merito delle differenze della genitorialità nelle coppie di donne e nelle coppie di uomini. Esistono questioni sulle quali si discute e sensibilità diverse, oltre che posizioni giurisprudenziali ancora in via di definizione.

Esistono due altre grandi questioni sulle quali merita soffermarsi e riguarda i discorsi d’odio e i crimini d’odio che colpiscono le persone omosessuali e quelle trans. In Italia discorsi e crimini d’odio sono puniti o criminalizzati quando si manifestino come ingiurie a persone identificabili o come reati comuni, le prime perseguibili in sede civile per ottenere un risarcimento per la lesione dei diritti della personalità, i secondo perseguiti dal codice penale.
I discorsi d’odio sono esperienza comune e sono in forte crescita. Internet è pieno di offese alle persone omosessuali e trans, ma anche i rappresentanti delle istituzioni non sono immuni dal farle. Perché con le parole di esprime disprezzo verso le persone omosessuali? Pura irrazionalità.
Qualche giorno fa sulla stampa è venuta l’ultima notizia in ordine di tempo che descrive questa realtà: due ragazze che vivono in provincia di Novara e che stanno insieme, durante il lockdown hanno ricevuto centinaia di insulti sulle loro pagine facebook e instagram solo perché lesbiche e in quanto coppia che si ama. Tra gli altri ci sono stati anche auguri di morte: molti approfittano in questi casi dell’anonimato assicurato da internet, quelli che si riescono a identificare possono essere perseguibili in sede civile, ma pochi in sede penale, come hanno fatto rilevare i carabinieri a cui le due ragazze si sono rivolte.
Poiché questo tipo di linguaggio non è socialmente accettabile occorrono azione preventive e culturali per limitarne la diffusione, ma occorre anche pensare a un intervento legislativo che garantisca una tutela semplificata a chi lo subisce che non può essere costretto ogni volta a dare mandato a un avvocato e avviare una causa con i costi, i tempi e le difficolta che questa comporta. Così come serve garantire sostegno alle vittime di questo odio.
Quello che più allarma è l’odio che dalle parole passa alla violenza, fisica e psicologica, di cui pure vi è una costante crescita.
Sul piano dei crimini d’odio l’Italia rimane uno dei pochi paesi dell’Unione europea a non tutelare con disposizioni specifiche le persone omosessuali e trans.
Però in Italia una legge che tutela i crimini d’odio esiste, ma protegge solo le persone per ragioni di razza, origine etnica, religione, appartenenza a una minoranza linguistica: è la legge c.d. Mancino-Reale. Tante volte si è cercato di estenderla anche ai reati motivati dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere della vittima, però i progetti si sono sempre arenati in Parlamento. Anche in questa legislatura ci si sta provando, ma a causa dell’emergenza determinata dal Coronavirus l’iter si è bloccato o rallentato.
Basta la tutela penale per risolvere i problemi che le persone omosessuali e trans subiscono? Certamente no, però sicuramente è uno dei pezzi che manca.

A cercare di fare la loro parte, negli ambiti di propria competenza, ci sono anche le regioni. In verità solo alcune sono intervenute, tra cui l’Emilia-Romagna, che nel 2019 ha approvato una legge contro le discriminazioni e le violenze sulla base dell’orientamento sessuale e l’identità di genere.
Questa legge interviene in tutti gli ambiti di cui ho parlato fino a ora, eccetto quello penale su cui la regione non ha competenza, per compiere innanzitutto un importante lavoro culturale e di prevenzione delle discriminazioni. Le leggi regionali sono importanti perché – se applicate effettivamente – possono contribuire a realizzare quel bellissimo piano di “rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale” come dice l’articolo 3 della Costituzione che sono un limite alla libertà e all’eguaglianza dei cittadini e impediscono il loro pieno sviluppo come persone.

Su un aspetto particolare l’Italia dispone di un sistema di norme e una buona giurisprudenza ed è la materia del diritto di asilo o della protezione internazionale delle persone migranti LGBT. L’Italia tendenzialmente protegge meglio di altri paesi chi è perseguitato nel proprio paese di origine o potrebbe esserlo a motivo del suo orientamento sessuale o identità di genere, ma anche in questo caso vi sono cose che andrebbero migliorate.

Vorrei infine accennare a quei diritti che riguardano specificamente le persone trans. Il primo di questi è il diritto a compiere la transizione, che la legge italiana consente e regola fin dal 1982. Una persona che sente la sua identità di genere non coincidere con il sesso e il genere assegnati alla nascita, può ricorrere a un giudice che dispone la rettificazione dei documenti e del nome e – solo dove la persona lo ritenga necessario – l’intervento di modificazione degli organi sessuali.
Per poter ottenere il completamento di questo percorso giudiziario, la persona segue un percorso psicologico o deve comunque ottenere la certificazione che attesti l’esistenza di una incongruenza di genere.
Nel corso di questo percorso, un endocrinologo prescrive alla persona l’assunzione di ormoni, necessari per la realizzazione del percorso di transizione e che alcuni/e dovranno assumere per tutta la vita. Su questo aspetto ci sono non poche difficoltà legate alla reperibilità degli ormoni, al loro costo e al fatto che una buona parte delle persone transessuali appartengano a fasce di reddito medio-bassa, soprattutto a ragione delle enormi difficoltà che incontrano nel trovare lavoro.
Per esempio, lo scorso anno un certo ormone è stato spostato nella fascia C dei farmacia, divenendo il costo totalmente a carico degli utenti, con un rincaro di oltre il 300% che ha creato in molti casi una impossibilità di accesso a un farmaco necessario per le persone trans.
Va detto che le persone transessuali che completano il percorso di transizione non rappresentano la totalità delle persone trans. Tuttavia, i diritti oggi riconosciuti in Italia sono garantiti solo a queste.

Arrivato a questo punto e prima di congedarmi spero di aver reso chiaro il senso di una giornata istituzionale come quella del 17 maggio.
A causa del loro orientamento sessuale o identità di genere, ci sono persone che hanno meno chance, meno diritti o vengono discriminate ed è importante ricordarlo perché le cose cambino.
E le cose cambiano se tutte e tutti ci impegniamo per farle cambiare.
Quella subita dalle persone omosessuali e trans non è un tipo di discriminazione che riguarda un singolo aspetto della vita o un momento particolare, ma può ricorrere anche ogni giorno o più volte al giorno fin da quando si nasce e bisogna anche essere fortunati a non incappare in “riparatori” o essere costretti a farsi “riparare”. Perché esiste anche questo: varie teorie riparative, ovvero tecniche e credenze condannate dalla medicina e dalla psicologia, che vorrebbero “guarire” dall’omosessualità o dalla varianza di genere. Sono tecniche che provocano traumi, dolore e violano la dignità più profonda della persona perché sono tesi a far credere alla persone che sono sbagliate, che qualcosa non va, ma non si tratta di malattie, non c’è niente da curare e non si guarisce, perché si tratta di caratteristiche personali di ciascuno/a.
Purtroppo, in Italia le teorie riparative sono condannate, ma non sono vietate, come avviene in altri paesi e come dovrebbe essere anche da noi.

Spero che la necessità di essere sintetico non mi abbia portato a non essere chiaro e soprattutto a trascurare troppi aspetti importanti della condizione dei diritti delle persone LGBT in Italia. Se l’ho fatto, me ne scuso, ma soprattutto spero di non avervi annoiato.

 

Antonio Rotelli
giurista, esperto in legistica, co-fondatore dell’Associazione Rete Lenford – Avvocatura per i diritti LGBTI, attualmente è assegnista di ricerca presso l’Università di Udine dove svolge una ricerca sul bullismo omofobico nelle scuole.

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