“La cultura?”

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La Cultura nella transizione pandemica

Esiste una questione specifica
della cultura
nella transizione pandemica?

di Franco Berardi

Si pone una questione specifica della produzione culturale, nella transizione che la pandemia impone o forse favorisce? Sì e no.
La sopravvivenza degli operatori culturali è un problema, come no. Se chiudono i teatri migliaia di lavoratori si trovano in difficoltà, non sanno come pagare l’affitto. Ma non è un problema specifico degli operatori culturali o degli artisti. E’ un problema assolutamente generale. La pandemia obbliga (e sempre più obbligherà) il sistema economico a riconoscere la necessità di un reddito di esistenza.
La tempesta virale, a mio parere, sta erodendo in modo profondo e implacabile i fondamenti stessi del lavoro salariato. La superstizione moderna secondo cui per sopravvivere bisogna vendere il proprio tempo in cambio di un salario, sta crollando. Solo una redistribuzione della ricchezza, solo una forma egualitaria e frugale della produzione e del consumo possono rendere possibile un’evoluzione della sfera sociale che permetta di evitare le prospettive (ora ben visibili all’orizzonte) della barbarie o dell’estinzione.
Che esistano le energie politiche per andare in questa direzione, questo è un altro discorso. Direi che attualmente quelle energie non le vediamo. Ma i processi di soggettivazione possono accelerarsi in modo catastrofico e possono nel tempo rivelare possibilità e forme organizzative capaci di portare la società fuori dalla forma capitalistica, che ormai funziona come una gabbia patogena.
Dunque non esiste un problema specifico della cultura, quando parliamo di sopravvivenza. L’intero corpo sociale, milioni di giovani disoccupati o precari, milioni di lavoratori che la trasformazione tecnica rende inutili, hanno diritto all’esistenza indipendentemente dalla prestazione di lavoro.
E’ una questione che si sta ponendo, e le proteste degli operatori culturali rientrano in una lotta che si potrà vincere solo con il reddito universale d’esistenza, che poi vuol dire scioglimento del legame salariale che non funziona più.

Da un altro punto di vista, dal punto di vista della qualità intrinseca dell’attività culturale, dal punto di vista del divenire della produzione culturale invece sì: esiste una specificità della questione culturale nella pandemia.
La pandemia, in generale, sta accelerando processi che erano giù visibili nella storia degli ultimi decenni: le diseguaglianze economiche tendono a crescere, l’epidemia psicotica si diffonde, le tecnologie digitali espandono la loro rete e le piattaforme di rete estendono la loro presa sulla vita sociale. Potremmo dire che quella che si è scatenata nel 2020 più che una pandemia è una sindemia, cioè la concorrenza di pandemie diverse, di processi patologici che hanno attaccato da tempo l’economia, la geopolitica, la psicosfera.
Anche sul piano culturale assistiamo all’accelerazione di un processo che era in corso da tempo: la convergenza dei linguaggi nella rete telematica e l’assorbimento dell’intera (quasi) attività semiotica nella connessione digitale.
La virtualizzazione della comunicazione era in corso da tempo, ma la sindemia scatenata dal virus ha accelerato enormemente questo processo.
Questa trasformazione tecnica della comunicazione produce mutamenti nella qualità e nelle forme della produzione artistica e più generalmente culturale.
Pensiamo a quello che sta succedendo (succedeva già, ma ora si è accelera) nel campo della produzione cinematografica. La chiusura prolungata dei cinema, la necessità del distanziamento sanitario, stanno forse producendo il collasso della cine-visione cui il Novecento ci aveva abituato. Le sale cinematografiche sono forse destinate a divenire luoghi rari ed elitari come i teatri del melodramma dopo il loro secolo fortunato.
Le grandi produzioni cinematografiche si stanno fondendo con i circuiti di distribuzione web-tv, e questo provoca una crisi di alcune forme espressive cui ci eravamo affezionati, ma al tempo stesso apre spazio all’ immaginazione artistica.
L’editoria si sta spostando verso forme reticolari, ma il libro lungi dallo scomparire resta il centro propulsore delle mutazioni dell’infosfera.
Insomma per farla breve, non mi piace tanto il tono di alcune proteste e appelli che rivendicano la funzione sociale della cultura. Non si tratta di rivendicare, si tratta di fare, di inventare, di immaginare.

Ma qualcuno i risponde giustamente che però gli artisti hanno il diritto di mangiare e di che vivere allegramente (se mai ritornano naturalmente le condizioni per l’allegria dopo la detenzione). Ma questo non è un diritto degli artisti, è un diritto di tutti. La creazione di forme nuove non dipende da nessuna autorità, neppure da quella economica. Gli individui in carne ossa che si chiamano artisti, invece, dipendono dall’economia, e hanno bisogno di un reddito, ma questa non è una questione particolare, è un bisogno di tutti coloro che compongono la società e che si porranno prima o poi il problema di una forma di vita egualitaria e frugale.

Novembre 2020


Franco Berardi detto Bifo è uno scrittore, filosofo e agitatore culturale italiano. È stato fra i fondatori della rivista “A/traverso” (1975-1981) e di Radio Alice (1976-1978), prima radio libera italiana. Ha lavorato a lungo a Parigi, con Felix Guattari, nell’ambito della schizoanalisi. Nel 1994 ha organizzato “Cibernauti”, il primo congresso europeo sulle reti e sulla networks technology. Ha insegnato Teoria dei media all’Accademia di Belle Arti di Milano, al PEI di Barcellona e all’Institute for Doctoral Studies in Visual Arts (Boston, Spannocchia).Fra gli ultimi libri in italiano, Futurabilità (Produzioni Nero, 2018), Il secondo avvento. Astrazione, apocalisse, comunismo (DeriveApprodi, 2018) e Mutazione e cyberpunk (Rogas, 2019). I suoi volumi sono tradotti e pubblicati in numerose lingue.

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