Né bulli né pupe

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Educazione di genere contro la violenza

Educazione di genere contro la violenza

Di Rossella Ghigi

Nel 2011 il Consiglio d’Europa approva una importante Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, nota come Convenzione di Istanbul. Il trattato si propone di prevenire la violenza, favorire la protezione delle vittime ed impedire l’impunità dei colpevoli. Non si tratta della prima iniziativa dei Paesi europei per contrastare la violenza sulle donne: diverse raccomandazioni e campagne l’hanno preceduta, almeno dagli inizi degli anni Duemila. Si tratta però di un primo importante documento, vincolante per gli Stati che lo hanno ratificato (l’Italia il 19 giugno 2013) e che sottolinea due elementi importanti: che la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi e che la discriminazione di genere costituisce terreno fertile per la tolleranza della violenza. La Convenzione esplicita che la prevenzione della violenza di genere richiede un profondo cambiamento di atteggiamenti e il superamento di stereotipi culturali, attraverso campagne di sensibilizzazione, a favorire nuovi programmi educativi e a formare adeguate figure professionali.

Lo stesso documento definisce il genere come l’insieme di “ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini” (art.3, lett. C). A differenza del sesso, che è l’insieme di caratteristiche fisiche, anatomiche e fisiologiche che definiscono la persona in termini sessuali, il genere è un insieme di elementi prettamente culturali e psicologici. È il genere che guida elementi diversi del nostro essere e che ci fanno riconoscere, da noi e dagli altri, come uomini o come donne (o al di fuori di questa dicotomia): dai giocattoli con cui giochiamo nell’infanzia, agli atteggiamenti che adottiamo nel nostro vivere quotidiano, dal lavoro che vogliamo fare da grandi, al modo in cui ci sediamo su una sedia. Quanto è innato e quanto è costruito? Questa domanda non ha una risposta definitiva. Ma certamente un’ampia letteratura documenta l’importanza delle istruzioni che provengono dall’ambiente su ciò che la società si aspetta da un individuo a seconda del suo essere riconosciuto come un maschio o come una femmina, fin dalla sua nascita (anzi, secondo alcuni studi nelle neuroscienze, fin dalla vita intrauterina). A questo processo contribuiscono varie possibili agenzie: la famiglia, la scuola, il gruppo dei pari, la parrocchia, il gruppo sportivo, la televisione, i social network, i mass media in generale, finanche gli oggetti che circondano un individuo dalla sua nascita. Per non dire, successivamente, dell’ambiente di lavoro, del sindacato, del partito politico, delle associazioni e delle varie reti in cui una persona è inserita poi da adulta. Chiaramente, i modelli di genere trasmessi dalle varie agenzie possono essere contraddittori tra loro (o all’interno della stessa agenzia: ad esempio, nella stessa famiglia un nonno può trasmettere l’idea, con i discorsi o con i suoi comportamenti, che sia disdicevole per un uomo lavare i piatti, mentre il padre può contraddire questo messaggio). E, soprattutto, possono cambiare.

Ma perché cambiarli? Qual è il collegamento tra questi modelli stereotipati la violenza di genere? In altre parole, che male c’è se alle bambine si indica la strada della cura o della bellezza, e ai bambini quella della avventura e della competizione (invito a guardare i cataloghi di giocattoli, ora che il Natale si avvicina, e a quanto siano espliciti nell’insegnare alle bambine ad “essere”, ai bambini a “fare”, socializzando le prime all’importanza della relazione e i secondi a quella della prestazione)?

Ryan Quintal su Unsplash

Ebbene, per almeno tre importanti ragioni. Prima, la socializzazione tradizionale di genere (come qualsiasi imposizione di un modello) limita le libere espressioni degli individui: loro stati emotivi, i loro talenti, le loro disposizioni. I maschi sono così portati a sentirsi più “fuori luogo” delle femmine nelle dimensioni della cura e della relazione, e le femmine “fuori luogo” nelle dimensioni tradizionalmente maschili della competizione o del rischio. Dire a un bambino “non piangere come una femminuccia” vuol dire impedirgli di esprimere ciò che prova (insegnandogli che il vero maschio non piange) e al tempo stesso trasmettergli un’idea precisa del femminile (le femmine sono deboli ed emotive). Dire a una bambina di non fare il maschiaccio ha effetti ugualmente limitanti. Eppure, entrambi, da grandi, potranno elogiare una donna dicendo che è veramente “una con le palle”, riconoscendo con una semplice frase il privilegio maschile anche nell’eccellenza femminile… l’eccezione che però conferma la regola. Quel che è più grave, è che le norme più stereotipate sul genere rinforzano l’idea che maschilità sia sinonimo di controllo e violenza, e viceversa femminilità di artificio e seduzione.

Seconda, la socializzazione tradizionale ai ruoli di genere rinforza le asimmetrie sociali: il lavoro domestico è ancora per il 70% sulle spalle delle donne, sono ancora poche quelle ai vertici delle professioni più prestigiose, non c’è adeguato riconoscimento sociale per la paternità, è ancora forte la segregazione formativa che porta molte donne a non sentirsi adeguate, pur a fronte di ottimi risultati in quelle materie, a una formazione terziaria tecnico-scientifica e soprattutto molti uomini a non entrare nelle professioni di cura, le quali non per caso sono anche meno remunerate, e così via. Insomma, la differenza creata a tavolino dalla società giustifica la disuguaglianza che sta alla base della società stessa.

Terza, molti studi hanno mostrato come gli stereotipi tradizionali di genere correlino positivamente con una maggiore accettazione sociale della violenza. Le persone che più aderiscono a modelli di genere tradizionali sono anche coloro che maggiormente giustificano la violenza e che con più probabilità, a parità di altre caratteristiche, l’hanno agita o addirittura (tra le donne) subita e tollerata. Per esempio, in una ricerca del 2019 l’Istat ha mostrato che sono ancora molto diffusi nel nostro paese gli stereotipi sui ruoli di genere. Ad esempio, quasi una persona su tre nella popolazione (di 18-74 anni), si dice d’accordo con le affermazioni: “per l’uomo, più che per la donna, è molto importante avere successo nel lavoro”, “gli uomini sono meno adatti a occuparsi delle faccende domestiche”; “è l’uomo a dover provvedere alle necessità economiche della famiglia”. Sul tema della violenza nella coppia, persiste il pregiudizio che addebita alla donna la responsabilità della violenza sessuale subita: il 39,3% ritiene che una donna sia in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole, ma anche la percentuale di chi pensa che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire è elevata (una persona su quattro). La ricerca Istat individua poi dei cluster che mostrano chiaramente come stereotipi sui ruoli di genere e accettazione della violenza sessuale vadano insieme.

Insomma, rigidi stereotipi di genere ingabbiano l’individualità, limitano la libertà di azione ed espressione in tutte le sue forme, arrivano anche a fornire giustificazione a violenze psicologiche e maltrattamenti. La radice della violenza di genere è una cultura che confonde passione e violenza e che vede il soggetto femminile come una non-persona, un individuo cioè che va tenuto sotto controllo perché irrazionale, imprevedibile e preda delle proprie emozioni, al pari di un bambino o di un animale: va dunque posseduto e controllato. Come recita un proverbio: “Quando torni a casa la sera, picchia tua moglie. Tu non sai perché, ma lei lo sa benissimo”. Il suo corrispettivo al maschile non esiste.

Diventa allora chiaro quanto sia necessario prevenire la violenza lavorando sui suoi presupposti culturali, sul modo in cui definiamo il maschile e il femminile e su quanto apriamo queste definizioni alla complessità. Sul modo in cui definiamo il rapporto di coppia e su quanto apriamo questa definizione alla libertà. Fare una educazione di genere consapevole (sui metodi e i risultati mi permetto di rimandare al mio testo Fare la differenza. Educazione di genere dalla prima infanzia all’età adulta, Mulino, 2019) significa evitare la cristallizzazione degli stereotipi legati all’identità di genere e ai ruoli di genere. Questo implica a sua volta la promozione di una cultura inclusiva, che riconosce la costruzione individuale della persona nella sua processualità, che non teme di guardare alla complessità come a una ricchezza. E che, in fondo, dà fiducia a chi si sta formando.


Rossella Ghigi è professoressa associata presso l’Università di Bologna, dove insegna Sociologia della famiglia e delle differenze di genere e Sociologia del welfare e della formazione continua. I suoi studi applicano la prospettiva di genere a numerosi ambiti del sociale, dalla gestione del corpo nella società dei consumi alla socializzazione e all’educazione, ai diritti riproduttivi, ai cambiamenti recenti nei modi di fare famiglia. Tra le sue pubblicazioni più recenti: I suoi primi quarant’anni. L’aborto ai tempi della 194, (a cura di), Neodemos, 2018, scaricabile full-text qui; Corpo, genere e società (Con R. Sassatelli), Il Mulino, 2018 e Fare la differenza. Educazione di genere dalla prima infanzia all’età adulta, Il Mulino, 2019.

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