Sperimentare con la luce

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Collezione di Michael Jacob

La collezione di Michael G. Jacob nella fototeca della biblioteca Panizzi e le prime tecniche fotografiche.

 “Ho colto la luce di passaggio e l’ho incatenata.
Ho costretto il sole a dipingere dei quadri per me”
L. J. Mandé Daguerre, 1839

Già dal Medioevo si conoscevano le proprietà della luce, ma solo nell’Ottocento si scoprì come catturarla e fissarla in immagine, rendendola eterna.

Il dagherrotipo prende il nome da L. J. Mandé Daguerre, artista, scenografo, ma anche chimico e fisico francese che, in collaborazione con J. Nicéphore Niépce, compie alcune sperimentazioni con i materiali sensibili alla luce giungendo alla realizzazione della sua prima immagine nel 1837. L’invenzione viene poi presentata all’Accademia di Francia insieme all’astronomo J. F. D. Arago nel 1839, e la tecnica continuerà ad essere utilizzata fino al 1865 circa.

Esso consiste in un’immagine fotografica unica ottenuta senza negativo e realizzata su un supporto di rame argentato perfettamente lucidato per essere sensibilizzato alla luce. Da qui l’appellativo di “specchio dotato di memoria”. La lastra, infatti, esposta ai vapori di iodio e successivamente a quelli di mercurio, in seguito fissata con cloruro di sodio, ha l’aspetto di uno specchio in cui si materializza l’immagine stessa, sia negativa che positiva a seconda dell’incidenza dei raggi luminosi sui sali d’argento. Per l’epoca, quasi una magia prodotta dalla luce.

Le custodie dei dagherrotipi, oltre ad avere una funzione estetica, hanno un ruolo essenziale nella conservazione della lastra di rame: sigillandola la preservano dall’azione ossidante dell’aria e dalla manipolazione diretta della lastra. L’immagine è, infatti, appoggiata sulla superficie e, passandovi sopra con le dita, si rischia di eliminare parte di essa.

La rarità delle immagini al dagherrotipo – dovuta soprattutto alla struttura e alle caratteristiche fisico-chimiche del procedimento, oltre che all’unicità e irripetibilità di ogni singola immagine – rende questi oggetti oggi particolarmente rari e preziosi.

La raccolta dei dagherrotipi della Fototeca della Biblioteca Panizzi si è formata nel tempo, attraverso donazioni e acquisizioni nel mercato antiquario, con lo scopo di arricchire e documentare le diverse tipologie di procedimenti fotografici storici già presenti nei fondi fotografici della Biblioteca. La raccolta è attualmente costituita da 108 pezzi tra dagherrotipi di provenienza italiana, inglese, francese, tedesca e americana, ed è consultabile tramite il catalogo on line della Fototeca, dove è possibile visualizzare le singole opere tramite l’immagine digitale nel sito della Biblioteca Panizzi. La Fototeca ha poi aderito al progetto europeo Daguerreobase, un database che contiene informazioni dettagliate sui dagherrotipi appartenenti alle collezioni di tutta Europa.

Recentemente questa collezione si è ulteriormente arricchita di nuovi pezzi, grazie ad una generosa donazione di Michael George Jacob. Michael G. Jacob, nato a Liverpool, è uno scrittore, collezionista ed esperto di dagherrotipi, membro della Daguerrian Society, che vive a Spoleto. La sua passione per le lastre d’argento risale a molto tempo fa, tanto che da molti oggi è considerato un pioniere del collezionismo di questo genere. Ha maturato una particolare conoscenza diretta delle tecniche di esecuzione e conservazione di questo tipo di oggetti fotografici. E’ infatti anche l’autore di un libro sui dagherrotipi a colori: Il dagherrotipo a colori, tecniche e conservazione, Firenze, Nardini, 1992. Egli ha deciso di donare alla fototeca della Biblioteca Panizzi parte della sua enorme e pregiata collezione, da cui scaturirà in futuro una mostra e sicuramente una collaborazione.

Il primo lotto di questa donazione, arrivato proprio nei giorni scorsi, è composto da circa 90 pezzi, tra cui dagherrotipi, ambrotipi e ferrotipi. Essi raffigurano per lo più ritratti di persone, da sole o in compagnia dei familiari. E’ singolare la serie di 3 dagherrotipi raffiguranti la medesima persona, un giovane uomo, immortalato in pose diverse, ma, mentre per due immagini si tratta sicuramente dello stesso momento, l’altra sembra essere precedente.

I primi fotografi si ispirarono chiaramente all’iconografia pittorica del ritratto ad olio, sia nella composizione, sia nella resa dei toni e così fu anche per i pittori che studiarono attentamente la nuova tecnica della dagherrotipia e della carta salata, intendendo la fotografia come una estensione del proprio sguardo. Essa, infatti era capace di mostrare all’occhio dettagli e particolari non così immediati. Pittura e fotografia dialogano per dare vita ad un nuovo linguaggio di rappresentazione tramandandoci, seppure nei limiti tecnologici dei primi procedimenti, la patina del tempo e di un’epoca ormai perduta.

Il fondo, come dicevamo, comprende anche 22 ambrotipi. Nonostante l’aspetto affine, l’ambrotipia non ha a che fare con la tecnica del dagherrotipo, ma è una variante del processo al collodio umido e ha la funzione di trattenere i sali d’argento sensibili alla luce sul supporto, in questo caso, di vetro. Frederick Scott Archer e Peter W. Fry scoprirono nel 1851 che era possibile ottenere immagini direttamente in positivo anche con questa tecnica. Il collodio veniva sbiancato e la lastra veniva poi verniciata di nero sul verso o semplicemente appoggiata su di un panno scuro per far risultare l’immagine in positivo. L’immagine ottenuta su vetro era confezionata in astucci simili a quelli utilizzati per i dagherrotipi. Per questo motivo, l’ambrotipo, all’epoca, era conosciuto anche come il “dagherrotipo su vetro”. In realtà l’immagine dell’ambrotipo è meno dettagliata e sofisticata e spesso veniva esaltata e resa più gradevole tramite la colorazione manuale.

Questa donazione arricchirà sicuramente il patrimonio della città, affiancandosi ad altre preziose collezioni della fototeca che testimoniano la storia della fotografia italiana ed internazionale dall’Ottocento ad oggi. Verrà al più presto catalogata e inserita nell’OPAC della Biblioteca Panizzi per essere messa a disposizione degli studiosi e di chiunque vorrà farsi affascinare dalla magia degli “specchi dotati di memoria”.

 

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