Tornare al Passato per trovare il futuro: Olivetti sognava il silenzio

Condividi:

RUBRICA COVERS
di Lara Palummo

Tornare al Passato per trovare il futuro: Olivetti sognava il silenzio

«Il mondo moderno ha chiuso l’uomo negli uffici e nelle fabbriche, tra l’asfalto delle strade e il disordinato intrecciarsi delle macchine, come in una prigione ostile e assordante dalla quale bisogna, presto o tardi, evadere». Era l’autunno del 1956 e Adriano Olivetti, in occasione del VI Congresso dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, a Torino, parlava al mondo intero, che stava cambiando. Parole reali allora e rivelatrici oggi, nella primavera/estate del 2020, ora che il tessuto urbano delle grandi città si è svuotato della sua linfa, sociale, economica, produttiva, culturale, mediatica.
Quella volta, e molte altre, il fondatore di Edizioni di Comunità (1946) dava voce allo spazio delle periferie, della socialità, del tempo “naturale”. Oggi quel discorso si può leggere in Noi sogniamo il silenzio, pamphlet autografo con la prefazione di Vittorio Gregoretti, riedito con un titolo nuovo dalla stessa casa editrice il cui simbolo è una campana, «che ognuno può suonare senza timore e senza esitazione. Essa ha voce soltanto per un mondo libero, materialmente più fascinoso e spiritualmente più elevato», si legge in esergo al volume, in una nota dello stesso Olivetti. Il publishing è a cura di Becco Giallo, il cui stile, in questo caso, è essenziale e aperto, nonostante sia “pieno di parole”, fatto dei colori della carta invecchiata, con un po’ di nero della macchina da scrivere, di rosa dell’utopia.

Nel quinto volumetto della collana Humana Civilitas, si legge, sin dalla copertina, un’idea di sostenibilità proprio come la intendiamo oggi, pulita e senza fronzoli, che ci dice che forse i tempi sono maturi per ripensare a una socialità decentrata, che si fa spazio nelle periferie, nei borghi dimenticati, che ridona alle stesse città la dignità dell’integrazione, dell’equilibrio, delle metropoli comunitarie, dell’arte. Per mescolare le economie, le specificità, i bisogni, la cooperazione, l’educazione alla cultura di tutti. Perché le città, come i paesi, possano essere irradiamento di bellezza da condividere, dove la funzione del singolo diventa fondamento di un sogno più grande, che si instaura sul paesaggio e la giusta misura. Olivetti invitava la sua comunità di ingegneri, architetti, sociologi e filosofi a prendere esempio dalle grandi metropoli europee, come Parigi e Londra e «il loro grandioso piano di decentramento industriale, in pieno corso di attuazione», evidenziando come «noi abbiamo invece, con mezzo secolo di ritardo, importato da oltreoceano un mostro grandioso, affascinante: il grattacielo, per consacrare una civiltà in transito, quella delle nostre metropoli del Nord».

Lontano dal modello della metropoli statunitense, simbolo dei grattacieli, dell’umanità che si innalza, superba, come le cattedrali gotiche, verso un cielo grigio come l’asfalto, Olivetti aveva in mente il modello del villaggio, dell’orizzontalità. Perché, come scriveva Frank Looyd Wright in When Democracy Builds, «i cittadini di un prossimo domani preferiranno l’orizzontalità – dono dell’automobile, del telefono e del telegrafo – e si rivolteranno contro la verticalità […] Lo stesso cittadino abbandonerà poco a poco la città: ora gli è molto più facile farlo. Già adesso i più fortunati possono fare a meno di restare». Era il 1945, lo stesso anno della prima esplosione atomica non sperimentale, bensì mortale.
Oggi, nel bel mezzo di una epidemia mondiale, i cui effetti naturali sono frutto di un modello economico-sociale imploso su se stesso, oggi che lo spazio periferico riacquista la sua utilità, mostrando la sua bellezza artistica, paesaggistica, naturalistica l’assunto di base non sembra essere mutato, anzi. Ne Il male del Nord, edito dalla neonata casa editrice pienogiorno e firmato da Pino Aprile, questo discorso iniziato molti anni fa, agli albori del boom economico, in altri contesti e circostanze, continua in maniera chiara e sorprendente: «Con la costrizione all’isolamento e al digital a causa del virus, è apparso a tutti chiaro che sono relativamente poche le attività che possono essere svolte solo in concentrazione urbana, e diventano sempre meno, perché nuove tecnologie e collegamenti virtuali rendono possibile da un qualsiasi posto fare se non tutto, quasi».

Perché, continua Wright dai lontanissimi anni Quaranta, «quando la catastrofe ecologica sembra avvicinarsi con l’inevitabilità di un evento naturale questi modelli sono una alternativa» e, dirà Aprile negli anni Venti del Ventunesimo secolo, «il virus venne a dirci questo e chi volle salvarsi tornò ai luoghi del passato e vi trovò il futuro».


Lara Palummo è redattrice ed editor per Compagnia editoriale Aliberti. Laureata in Pubblicità, editoria e creatività d’impresa nel 2013 presso l’ateneo di Modena e Reggio Emilia, ha collaborato con piccole realtà del web e della radio. Sue illustrazioni si possono trovare nel libro umoristico Salviamo il mondo delle Iene Pio e Amedeo e nel libro per bambini La favola è in tavola di Carmela Cipriani.

Condividi: