Frank Gehry, creatore di sogni

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di Sidney Pollack

All’inizio del documentario che Sidney Pollack ha dedicato all’amico Frank Gehry, considerato uno dei maggiori innovatori dell’architettura contemporanea, il collezionista d’arte Michael Ovitz paragona Gehry a uno sceneggiatore-regista: “uno che ha un’idea, la sviluppa e la trasforma in un’opera compiuta”. Un punto di incontro, questo, tra due artisti che hanno cercato di sviluppare uno stile personale in discipline che impongono rigidi vincoli tecnici e commerciali: Pollack, manipolatore di generi, capace di trasformare il racconto cinematografico dall’interno con una sensibilità attenta ai fermenti culturali e sociali, e Gehry, l’architetto sperimentatore di idee che sembrano andare al di là della materia, capace tuttavia di conciliare, come dichiara nel film il pittore Ed Ruscha, le leggi della fisica con l’estemporaneità dell’arte.

Nel corso di cinque anni, Pollack ha filmato Gehry con una cinepresa digitale riprendendo il suo lavoro, mentre con cartoncino e nastro adesivo costruisce quelle forme apparentemente frammentarie, disarmoniche, incurvate, increspate e piegate che dai suoi schizzi “scarabocchiati” e dalle tre dimensioni del modello passeranno alla versione computerizzata dell’edificio e delle sue parti, con un procedimento di modellazione della materia attraverso il quale una tecnologia avanzatissima si introduce nel suo lavoro senza cambiarne il metodo. E soprattutto senza alienare la visione di una disarmonia apparente che considera la costruzione sia dall’interno che dall’esterno avvolgendola su se stessa, aprendola a chi la guarda o la visita, depositandola nello spazio circostante e riconquistandola ad una dimensione che ha la magia del gioco, sprigionando una nuova energia che coinvolge visitatori e spettatori in un’inedita esperienza emotiva e sensoriale. Parlando della sua opera forse più famosa ed emblematica, il Guggenheim Museum di Bilbao, uno degli intervistati del film la definisce “la più impressionante cattedrale del Ventesimo secolo” per l’intensità e la forza con la quale le emozioni vengono espresse in un oggetto tridimensionale. Un “oggetto” che sembra venuto dallo spazio ma che allo stesso tempo appartiene alla città, alla riqualificazione del suo tessuto urbano, perchè le opere di Gehry, come il Disney Ice o la Walt Disney Concert Hall, non sono sogni fine a se stessi, non ignorano le loro finalità e non ne svalutano la funzione e l‘utilizzo.

Nel corso del film Gehry, ripreso in primo piano, in auto e nel suo studio, racconta la sua vita, i diversi lavori che hanno preceduto la sua carriera di architetto, mentre gli edifici da lui creati vengono ripresi in pellicola, in piena luce, sotto la pioggia o la neve, accanto all’acqua che li rispecchia, mentre la macchina da presa si sofferma sulle superfici alle quali la luce dà vita insinuandosi nei materiali e nelle forme insolite che riflettono ciò che le circonda e si autoriflettono attraverso deformazioni fantastiche e giocose, e che della carta, dalla quale hanno avuto origine, sembrano conservare la versatilità e la leggerezza. Un momento del film particolarmente toccante è quello in cui Gehry parla del Maggie’s Center, concepito come uno spazio informale per i malati di tumore e da lui realizzato a Dundee, Scozia, in memoria di un’amica: un edificio con il tetto a fisarmonica sul quale si rispecchia il cielo, circondato da un paesaggio pieno di verde, che vuole fare dell’architettura un mezzo di guarigione reinventando un ambiente conviviale, meditativo e di riflessione che permetta alla malattia di travalicare i limiti dolorosi della sfera individuale.

Impossibile ignorare la vicinanza di Gehry alla pittura e alla scultura – dal cubismo alla Pop Art, dal ready-made all’Action Painting – per quella grande libertà espressiva che gli permette di coniugare bellezza, entropia e un equilibrio apparentemente instabile che emoziona e affascina, che introduce in paesaggi banali o “di scarto” la meraviglia e lo stupore, aprendo nel vissuto urbano la possibilità di una visione collettiva differente. Quando mostra come ha immaginato una struttura tridimensionale a partire da un dipinto, l’“Incoronazione di spine” di Hieronymus Bosch della London National Gallery, il pensiero va in qualche modo agli Angeli di Paul Klee: disegni “aperti”, come gli schizzi di Gehry, che richiamano non solo un potere generativo originario ma anche un movimento continuo del reale dal passato al futuro, forme astratte che, come quelle di Gehry, si aprono verso il possibile, verso dimensioni e forme di vita che si animano e si trasformano le une nelle altre assecondando il desiderio di ogni vero artista, che è quello di cambiare il mondo.

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Nato a Toronto il 28 febbraio 1929, ma formatosi a Los Angeles, dove vive e lavora dall’età di diciassette anni, Frank Owen Gehry (Ephraim Owen Goldberg,) è considerato uno dei massimi esponenti mondiali dell’architettura contemporanea e del decostruttivismo architettonico, caratterizzato dalla scomposizione dell’edificio in unità volumetriche poi riassemblate secondo criteri apparentemente disarmonici e asimmetrici, con una predilezione per la linea obliqua e l’accostamento di materiali diversi e inusuali, da quelli più comuni e “di scarto”, come la rete metallica, i tubi e la lamiera ondulata, fino quelli più complessi, come il vetro e le leghe a base di titanio, secondo tecniche che si avvicinano sia alla scultura che al collage artistico. Tra le sue numerosissime opere, realizzate fin dagli anni ’60: Hollywood Bowl (1970-82), Performing Arts Pavillon, Concord (1975-77), Gehry House, Santa Monica (1978), California Aerospace Museum, Los Angeles, (1984), Vitra Design Museum, Wail am Rhein (1989), Edgmar Museum Shopping Mall, Santa Monica, (1989), DZ Bank Building, Berlino (1998-2000), Guggenheim Museum Bilbao, Bilbao (1997), forse la sua opera più famosa, che ha contribuito a rivoluzionare il concetto di museo contemporaneo, Gehry Tower, Hannover (2001), Walt Disney Concert Hall, Los Angeles (2003), Beekman Tower, New York (2011).

Sidney Pollack, nato nel 1934 a Lafayette, Indiana, è uno dei più importanti registi americani fin dagli anni della Nuova Hollywood, di cui è stato uno dei principali protagonisti. Dopo avere studiato recitazione a New York , diventa regista teatrale, attore e regista di telefilm prima di esordire nel lungometraggio con La vita corre sul filo (1965). Negli anni ‘70 inizia una lunga collaborazione con Robert Redford, interprete dei suoi film più noti di quel periodo: Questa ragazza è di tutti (1966), Corvo rosso non avrai il mio scalpo (1972), Come eravamo (1973), I tre giorni del Condor (1975), Il cavaliere elettrico (1979). Tra gli altri attori da lui diretti tra la fine degli anni ‘60 e gli anni ’80, Burt Lancaster in Joe Bass l’implacabile (1968) e Ardenne ‘44, un inferno (1969), Jane Fonda in Non si uccidono così anche i cavalli? (1969), Robert Mitchum in Yakuza (1975), Al Pacino in Un attimo, una vita (1977), Paul Newman in Diritto di cronaca (1981) e Dustin Hoffman in Tootsie (1982); con La mia Africa (1985), interpretato da Robert Redford e Meryl Streep, ha vinto ben sette Oscar. Nel 2005 ha diretto Nicole Kidman e Sean Penn in The Interpreter. Frank Gehry, creatore di sogni è stato il suo primo documentario.

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