A proposito di libertà: confini e radici…

Condividi:

di Francesca Alfano Miglietti

Qualcuno obietterà rieccoci, sempre con la stessa incapacità di oltrepassare il confine,
di passare dall’altra parte, di ascoltare e far comprendere il linguaggio che viene da altrove o dal basso; sempre la stessa scelta di collocarsi dalla parte del potere, di quello che esso dice o fa dire”.

Michel Foucault (da La vita degli uomini infami)

È la cultura che ci rende umani. La storia degli esseri umani è storia di movimenti, diversità e scambi. E noi stessi siamo tutti degli ‘incroci’, tanto biologicamente quanto culturalmente. Non è più assolutamente adeguata (ammesso che lo sia mai stata) una identità territorializzata, di classe, di genere, di orientamento sessuale, di razza, di età, di etnia, il dispiegarsi di mappe identitarie tracciate su flussi contrapposti e instabili non corrisponde in nulla alla topografia multidirezionale della soggettività, composta da strati multipli, scelte, incontri, tensioni, ripensamenti, azioni, ribellioni. L’identità è una prospettiva mobile, soprattutto a partire dalla considerazione che gli individui, fino a poco tempo fa, non hanno potuto scegliere nulla dei tratti della loro identità: non la sessualità, non la razza, non lo stato sociale, non le malattie o la morfologia, una identità incarnata ad una corporeità di cui non si è scelto nulla. Emerge, all’interno delle problematiche dell’identità, un nuovo modo di concepire il corpo e il territorio in cui si muove.
Emerge chiaramente l’esigenza di reinventare, il rapporto io/altro, a partire da una riconsiderazione di io e di altro, all’interno di una prospettiva di mutazione antropologica. Donna Haraway che definisce il corpo come “una superficie d’incrocio di molteplici e mutevoli codici d’informazione, dal codice genetico fino a quello dell’informatica “, si schiera a favore della confusione dei confini, “confini trasgrediti, potenti fusioni e possibilità pericolose…in cui si affermano affinità, non identità…”, dunque, in questa dimensione le dicotomie oppositive mente/corpo, animale/umano, organismo/macchina, uomo/donna, pubblico/privato, primitivo/civilizzato, natura/cultura, naturale/artificiale, sono tutte messe in questione, ed è a partire da questa messa in discussione che si attivano i meccanismi di fuoriuscita dalle trappole dell’identità.
Una delle pratiche più interessanti della dimensione multidentitaria è la pratica del trasferimento, dalla condizione nomadica di luoghi geografici e reti telematiche, al trasferimento identitario. Il trasferimento è la condizione che permette una nuova postazione e quindi un nuovo punto di vista, la condizione della mente che permette di vivere qualsiasi luogo e qualsiasi identità come distacco, come non appartenenza, che consente la necessità della scoperta di nuovi luoghi mentali e di nuovi mondi emozionali.

Benedict Anderson, nel suo libro Comunità immaginate, alla domanda: “Cos’è una nazione?“, risponde “Una comunità politica immaginata, e immaginata come intrinsecamente insieme limitata e sovrana”: immaginata poiché non succederà mai che tutti i suoi membri si conoscano personalmente; limitata, perché la nazione è sempre immaginata con dei confini, al di là dei quali vi sono altre nazioni; sovrana, perché il concetto, maturato in epoca illuminista, considera la libertà un grande ideale.
I termini di “nazione”, “nazionalità”, “nazionalismo”, afferma Anderson, non vanno equiparati ad un ideologia, ma collocati su un altro livello di fenomeni rispetto alla sfera politica, si tratta di particolari modalità, come le categorie antropologiche del tipo della “parentela” o della “religione”, sistemi complessi rispondenti a un insieme multiplo di bisogni sociali e individuali. Anderson indaga il concetto di “nazione” come un prodotto innanzitutto culturale, un processo creativo dell’immaginazione sociale umana, infatti parla di comunità “immaginate” e non “immaginarie”.
Ma i confini non sono naturali: e quegli stessi fiumi e quegli stessi monti, che la gente prima guadava e valicava, diventano barriera, e, per decreto, si trasforma un dato di natura in una norma di diritto. È il confine che crea lo straniero, “La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo” ha scritto Nietzsche, ma tracciare un confine è più semplice che costruire un ponte e sono sempre di più numerosi i motivi per erigere un nuovo muro piuttosto che a collegare due sponde. 

Out of Bounds, 2015, installazione, mixed media, 56th Venice Biennale. Courtesy the artist and A Palazzo gallery.

Dunque la parola confine indica un limite astratto e artificiale, imposto arbitrariamente come principio regolatore del mondo. Guardando la terra dal cielo non si percepisce alcun confine: il mondo, prima di noi umani, non aveva di confini, i confini, infatti, nascono per separare, per dividere noi dagli altri. Ma chi siamo noi? E chi sono gli altri?

Un mondo che traccia confini su presunte identità è un mondo che necessita di attraversare frontiere, quelle frontiere che servono solo a definire le retoriche attorno alla cultura, all’identità, alla razza e a meccanismi di forme varie di profitto.

Paulo Nazareth – Banana Market_Art Market (2011)

Sempre di più, negli ultimi anni, molti movimenti e partiti politici, stanno proponendo una società etnica, identitaria ed escludente. Una società basata sul luogo di nascita e non sulle scelte culturali. Una società che sostiene il concetto di “radici”. Ma, come più volte ha scritto Marco Aime (docente di Antropologia culturale all’università di Genova e scrittore) “gli uomini non hanno “radici”, hanno piedi e la storia dell’umanità è fatta di gente in cammino”.

Tutte le culture che ci hanno preceduto hanno saputo accogliere ciò che proveniva da altre parti, noi tutti siamo il prodotto di incontri e di scambi e dentro di noi stessi siamo un intreccio culturale. Le culture sono sempre state permeabili, non strutture chiuse ma una continua costruzione, che si monta, si smonta, si rimonta, anche con pezzi di altre culture e di altri modi di vedere e di pensare e di sognare e di immaginare. Infatti ogni individuo può scegliere di modificare la propria cultura e, insieme, la propria identità. Scrive ancora Marco Aime: “Il problema è che non basta nascere per esistere. E non basta esistere per avere dei diritti. Con l’introduzione del reato di clandestinità, si è arrivati a punire una persona non per ciò che fa, ma per ciò che è. Siamo alla negazione dello status di essere umano, alla riduzione delle relazioni umane ad atto burocratico, asettico (…) . Si spostano le tragedie umane su un piano formale, giuridico, privo di emotività e di senso di umanità. Poi ci si trincera dietro all’asettico rispetto delle norme. Esattamente come facevano i capi nazisti, che dicevano di avere semplicemente eseguito ordini”.

I nostri antenati si sono spostati, hanno trovato climi nuovi e diversi, e, di volta in volta, hanno dovuto elaborare nuove strategie. Per tutta la prima metà del Novecento si è parlato di razze e i tentativi di classificare l’umanità sulla base di criteri razziali si sono fondati sulle differenze nell’aspetto esteriore, come, soprattutto, il colore della pelle. Con la scoperta del DNA nel 1961 si è definitivamente appurato che non è possibile classificare l’umanità in razze distinte su basi scientifiche. E questo proprio perché l’uomo ha i piedi e, con gli spostamenti, ha dato vita a un meticciamento, anche dal punto di vista genetico. La razza non esiste. “Eravamo disposti ad ammettere qualsiasi cosa, ma non di essere cominciati dai piedi ”, scrive André Leroi-Gourhan, uno dei maggiori specialisti dell’evoluzione umana, che continua affermando che “la storia del nostro genere è fatta con i piedi, perché gran parte del nostro essere umani dipende dalla posizione eretta, per conquistare la quale i piedi sono fondamentali”.

Viviamo in un’epoca in cui molti fattori hanno radicalmente trasformato la percezione di territori, limiti e confini. Ma che cosa significa parlare di “confini” e di “radici” oggi? Questi termini non indicano solo una nozione geografica ma fanno riferimento anche a un concetto di appartenenza che si estende a una dimensione sociale, culturale e identitaria. Filo spinato, controllo dei documenti, colonne di profughi che si spostano da un paese all’altro: i sogni dell’Europa unita oggi si mescolano drammaticamente con gli spettri di storie già viste nel secolo scorso, e le peggiori pagine del passato sembrano allungare ancora di più le loro ombre.

Maria Thereza Alves Seeds of Change New York A Botany of Colonization 2017

La Biennale di Venezia, diversamente dalla Documenta di Kassel e da Biennali meno legate ai confini, anche in quest’ultima edizione, si presta a presentare una nuova geografia. Venezia è il luogo dove il dibattito tra nazioni continua a esistere e a esasperarsi, ma in modo pacifico e in nome del sapere e dell’arte. Fondata nel 1893, l’istituzione della Biennale di Venezia si affaccia sulla scena mondiale in un momento in cui le forze della modernità industriale, delle tecnologie, e dei regimi coloniali stavano ridisegnando la mappa mondiale e stavano riscrivendo le regole della sovranità. Questi cambiamenti sono stati accompagnati da diversi movimenti di massa: dai movimenti operai e quelli delle donne, dai movimenti anticoloniali a quelli per i diritti civili, ecc.
Fin dalla sua prima edizione nel 1895 la Biennale di Venezia si è sempre collocata nel punto di confluenza di molti cambiamenti sociopolitici e di radicali fratture storiche nel campo dell’arte, della cultura, della politica, della tecnologia e dell’economia.

Molti gli artisti che negli ultimi decenni si interrogano su queste questioni: Tiffany Chung, Mona Hatoum, Uwe Walther, Yanko Tsvetkov, Michal Rovner, Qiu Zhijie, Yto Barrada, Tadashi Kawamata, Mohammed Ibrahim Mahama, Sigalit Landau, Richard Mosse, Paulo Nazareth, Zhang Huan, Maria Thereza Alves, Santiago Sierra, John Akomfrah, El Anatsui, per citarne solo alcuni. Le opere degli artisti forniscono differenti attitudini, modi di vivere e pensare il rapporto instabile tra identità, territorio e confine. Fotografie, video, installazioni danno lo spunto per riflessioni sull’idea di frontiera come scoperta o barriera, sulla ibridazione tra cosmopolitismo e rivendicazione territoriale, sulla figura dell’artista stesso nella sua condizione di viaggiatore, nomade o sperimentatore in bilico tra territori fisici e simbolici.

Ancora una volta il panorama mondiale appare di nuovo in frantumi e nel caos, segnato da paure e atti di terrorismo, spaventato e impoverito dalla crisi economica, e colpito da una sempre più profonda instabilità in tutte le regioni del mondo.

Ancora una volta sono gli artisti a porre la domanda “Quanto è instabile la nostra identità, e quanto labili sono diventati i confini territoriali?” I confini sono un catalogo di ipotesi, un’enciclopedia del possibile e del praticabile. I confini prima che geografie, sono storie, racconti e immagini. Sono costruzioni che confrontano e confondono, cioè fondono insieme, mescolano, amalgamano, uniscono senza ridurre a una sola possibilità.

I limiti sono soglie calpestabili, la specie umana li sposta continuamente in ogni campo delle sue attività – scrive Erri De Luca – Dai telescopi che esplorano le galassie alla biologia che fruga tra i segreti delle cellule, avanzano le conoscenze spostando i limiti precedenti. Perciò non può avere potere di arresto un confine tracciato a matita sulla faccia della terra“.

Condividi: