Note di filosofia. Fragilità

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Ivan Levrini ed Enrico Bizzarri, docente ed ex docente al Liceo Ariosto-Spallanzani, sono gli ideatori e curatori di Verso sera, ciclo di conversazioni e letture di filosofia promosso dalla Fondazione I Teatri di Reggio Emilia.

Fragile come un bicchiere di cristallo. Fragile di carattere. Fragile come le ossa di chi è avanti negli anni. La fragilità è una caratteristica delle strutture che al minimo urto vanno in frantumi. E i buoni propositi sono fragili come i giuramenti, ammesso che ancora qualcuno s’avventuri in simili impegni.
Anche le formazioni politiche, quando s’ingrossano per effetto della fortuna, sono soggette a frantumarsi. Soprattutto se non sorrette dalla virtù di chi le guida, direbbe Machiavelli. D’altronde Guicciardini, l’altro grande fiorentino del tempo, suggeriva che tutti i regni sono mortali, e ogni cosa, o per natura o per accidente, è destinata a terminare.
Non è facile attribuire un valore positivo alla fragilità. Si preferisce una salute robusta piuttosto che cagionevole. S’ammira la tenacia, la resistenza, la forza: chi cede, magari sotto la pressione delle circostanze – ad esempio chi perde il controllo dei nervi e s’abbandona al sentimento dell’ira – sarà forse oggetto di comprensione, non d’ammirazione.
Eppure, scavando più a fondo, si può scoprire dell’altro, trovando qualcosa in grado di rivelare lati non così negativi della fragilità. Potremmo riconoscere che proprio i nostri limiti, compresa la mancanza di durezza, ci hanno aiutato a diventare quello che siamo.
Arnold Gehlen, un filosofo del Novecento, diceva che l’uomo agisce in ragione di una natura carente. Manchiamo di armi di difesa naturale e non abbiamo rilevanti specializzazioni organiche, ma la carenza ha finito per rivelarsi non così negativa nel corso dell’evoluzione.
Non abbiamo un abbondante rivestimento pilifero e siamo poco protetti dalle intemperie, ma questo ha stimolato l’ingegno della tessitura e della costruzione. Non abbiamo zanne o artigli, perciò non siamo adatti né a combattere né a fuggire, i due modi più praticati nel regno animale per reagire all’aggressione, ma abbiamo imparato a costruire utensili. Siamo poco specializzati nella dentatura, inadatti alla condizione degli erbivori e a quella dei carnivori, ma riusciamo a mangiare di tutto.
Per di più, siamo carenti anche nell’istinto, che negli animali regola e garantisce il soddisfacimento dei bisogni in stretto rapporto con l’ambiente. Anche per questo ci serve un lungo e laborioso apprendimento, prima di arrivare all’età adulta: all’uomo occorrono cure e protezioni per almeno un quinto dell’esistenza. Ma proprio per sopperire a questa fragilità abbiamo sviluppato le risorse della cultura. E riusciamo a trasmetterla evitando che la conoscenza si disperda da una generazione all’altra.
Fragilità e carenze non sono state solo svantaggi, altrimenti l’uomo, anziché affermarsi sull’intero pianeta, sarebbe già scomparso dalla faccia della terra. Forse dovremmo prendere maggiore coscienza delle risorse cognitive elaborate per reagire a una condizione di fragilità, e alla paura che ne consegue. Dovremmo farlo anche per contenere la reazione al sentimento d’impotenza che facilmente si traduce in chiave di dominio, sia dell’uomo sulla natura che dell’uomo sull’altro uomo.
Fragilità e carenze hanno indotto l’essere umano ad aprirsi al mondo, a non chiudersi in un’unica nicchia, a non vivere solo l’immediatezza del presente e a protendersi verso il futuro.
Il mancato adattamento a un particolare habitat, il difetto di specializzazione fisica e la carenza di strumenti organici hanno favorito l’apertura dell’uomo al mondo e la produzione di sapere: da quello strumentale a quello astratto, da quello tecnico a quello pratico, culminato nelle istituzioni che moltiplicano la forza dei singoli. Ma se il mondo della cultura è diventato una seconda natura, ciò è successo proprio in ragione del fatto che non viviamo protetti in un paradiso terrestre.
L’uomo muta, si forma, si sviluppa. Ognuno sviluppa spesso qualità che non solo gli altri, ma nemmeno lui stesso avrebbe mai sospettato di avere. Lo diceva un filosofo di nome Feuerbach, il quale suggeriva di guardare all’uomo come a una potenza benefica per gli altri uomini. Spesso non è stato così, nella storia. L’uomo è stato malefico. Ma sarebbe interessante sapere se questo non sia avvenuto, almeno in parte, per reazione all’incapacità di prendere coscienza dei propri limiti.
Non c’è dubbio: l’esposizione alle difficoltà e l’apertura al mondo sono all’origine della paura che sorge dalle proiezioni di un essere fragile e primitivo in un ambiente pericoloso e violento. Lo dice Danilo Zolo, un raffinato filosofo della politica. Lo diceva anche Hobbes. Ma alla stessa origine vanno ricondotti gli strumenti cognitivi elaborati nel corso della storia: le categorie di pensiero, la scienza e le tecniche che hanno sorretto lo sviluppo della vita. Perfino l’arte del racconto, da cui proviene la letteratura, andrebbe inscritta in un simile processo.
Non è facile mantenere l’equilibrio della saggezza stoica, che invita a perseverare piuttosto che a bramare, a sopportare piuttosto che affliggersi. E soprattutto, a prevedere e provvedere piuttosto che abbandonarsi al panico. Ma non c’è dubbio che pensare a sé stessi accettando limiti e fragilità, come individui e come comunità politica, persino come specie vivente, aiuterebbe a scansare due mali altrettanto nefasti: scadere nel sentimento dell’impotenza o rincorrere il delirio dell’onnipotenza. In fondo è quello che suggerisce Pascal, quando ci ricorda che l’uomo sarà pur fragile come una canna, ma rimane pur sempre una canna pensante.

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