Consigli di cinema: Honeyland

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Honeyland

La semplice filosofia di Hatidze “prendi la metà, lascia la metà” ha definito il cuore del film e ci ha guidato durante le riprese, perché questo approccio non vale solo con le api e il loro miele, ma con tutte le risorse naturali.

Tamara Kotevska – regista

Pochi documentari hanno offerto un’allegoria così intimamente esasperante e metodicamente dettagliata delle meraviglie della terra devastate dalle conseguenze dell’avidità umana.

L’ultima allevatrice di api selvatiche

Tutto ha avuto inizio quando Tamara Kotevska e Ljubomir Stefanov partono per fare ricerche per un documentario ambientale in Macedonia e qui conoscono Hatidze, una delle ultime allevatrici di api selvatiche in Europa.
Affascinati da questo personaggio incredibile, i registi iniziano a riprenderla per tre anni, tra i cigli rocciosi dei Balcani e luoghi cristallizzati nel tempo. Con l’aiuto di un paio di operatori hanno girato un totale di 400 ore, dalle quali hanno saputo trarre un piccolo miracolo cinematografico di 85 minuti.
Il riscontro è stato eccezionale e ha portato Honeyland a fare incetta di premi e riconoscimenti in tutto il mondo, arrivando ad avere candidature agli Oscar. Accolto con successo dalla critica internazionale, Honeyland parla del delicato equilibrio tra uomo e natura e delle conseguenze provocate, con un effetto domino, dall’avidità umana e dallo sfruttamento delle risorse naturali.

Hatizde è una donna di origine turca che vive in un remoto villaggio della Macedonia del Nord, raccogliendo il miele selvatico in una pacifica e armoniosa simbiosi con le api. La sua regola è “prendere la metà e lasciare l’altra metà”. Un modo semplice per garantire la sopravvivenza delle api e al tempo stesso la propria.
Depositaria di un’antica tradizione di apicoltori, tramandata di generazione in generazione, Hatidze abita in una piccola casupola di pietra, senza corrente elettrica né acqua, e trascorre le sue giornate occupandosi dell’anziana madre malata e delle sue arnie. Gli unici contatti col mondo esterno sono i suoi viaggi al mercato della capitale Skopje, dove si reca a vendere il prezioso miele, e qualche festa di paese, dove antiche tradizioni si mescolano allo zucchero filato.
Tutto cambia quando, da un giorno all’altro, una famiglia nomade con sette bambini e cento mucche si stabilisce nel villaggio, a pochi passi dalla capanna di Hatidze.

La novità viene accolta con ingenua curiosità e apertura dalla donna, che presto familiarizza coi bambini e mostra al capofamiglia Hussein i rituali del suo lavoro con le api. Non passerà molto, però, prima che l’uomo, spinto da contingenze economiche e da mercanti senza scrupoli, tenterà di farne un business personale, dimenticando il principio base della condivisione e intaccando così il precario equilibrio a lungo preservato dalla donna. Uno spunto narrativo eccezionale, in grado di aggiungere alla storia il conflitto necessario a portarla a compimento, in modo del tutto naturale.

Riportiamo la recensione di A. Piccardi apparsa su Cineforum (14 ottobre 2020)

“E’ incontestabilmente vero quello che da più parti si è scritto a proposito di Honeyland – Il regno delle api, confermato del resto dalle dichiarazioni d’intenti dei due registi Tamara Kotevska e Ljubomir Stefanov: che il documentario ci racconta di come un esempio di equilibrio miracoloso e fragilissimo tra presenza umana – Hatidze Muratova, carismatica custode di questo segreto – e mondo animale (qui rappresentato dalle comunità selvatiche di api instancabilmente dedite alla produzione del miele, non a caso considerato nella mitologia greca alimento di Zeus e degli dei) arriva a scontrarsi con l’irruzione di comportamenti che non rispondono a una logica di convivenza riconoscente ma di esplicito sfruttamento, al tempo stesso indotto da circostanze oggettive e brutale sia nelle sue manifestazioni che nei suoi effetti.

Hatidze si muove con leggerezza e gentilezza nel suo quotidiano confronto con le api. Le rispetta e, così come le sa circuire con le sue nenie e i suoi essenziali strumenti di lavoro per appropriarsi del prodotto del loro lavoro, contemporaneamente divide con esse quest’ultimo (“metà a voi e metà a me”): un gesto che rimanda alle origini lontanissime del genere umano, consapevole debitore della propria sopravvivenza ad altri esseri viventi, degni per questo di essere continuamente ringraziati e placati per la violenza che sono costretti a subire a tal fine. A sottolineare non soltanto l’appartenenza profonda di Hatidze a questo sistema di riconoscimento ma anche la precarietà cui esso è esposto sta la prima sequenza che ci mostra la donna raggiungere un favo selvatico sull’orlo di un precipizio, muovendosi con la semplicità e la grazia di un animale selvatico eppure cosciente di svolgere un’attività basata su conoscenza e tecnica tramandate di generazione in generazione, necessaria alla sua economia di pura sussistenza.

L’arrivo della numerosa famiglia di allevatori e apicoltori nomadi, che si installano sul territorio come suoi vicini e vi restano a lungo con l’intenzione di sfruttarne le risorse all’estremo, senza rispetto, con l’unico fine di asservirlo alle proprie necessità, sconvolge ogni equilibrio, rifiuta il sentimento della pietà in nome della sopraffazione, e finisce per far prevalere senza alcun rimorso una logica di morte su quella della gratitudine capace di favorire il riprodursi della vita. Quando ripartiranno lasceranno dietro di sé distruzione e desolazione.

Tutto questo è vero.

Ma il documentario racconta anche un’altra storia che vale la pena di considerare in tutta la sua bellezza. Hatidze ha continuato a vivere in quei luoghi perché così le è stato imposto dalla tradizione che vieta all’ultima figlia di sposarsi e le ordina di rimanere al fianco della madre, se questa è ancora viva, per badare a lei, curarla e sostentarla fino alla fine. Hatidze non sembra a prima vista rifiutare in alcun modo questa funzione; tutto nel suo comportamento pare esprimere una totale accettazione del ruolo assegnatole; una forma di obbedienza, la sua, che sembra sconfinare nella completa rinuncia ad attese o progetti di altro genere sulla propria esistenza. Ma, anticipato dalla scioltezza con cui la donna si muove nella città dove si reca a vendere il miele raccolto e dall’evidente divertimento con cui assiste alle manifestazioni sportive della sagra del villaggio vicino, l’elemento divergente che le cova dentro poco a poco emerge e finisce per manifestarsi – non tanto paradossalmente – nel rapporto di confidenza che, sia pure sotto traccia, si sviluppa tra lei e il ragazzino che della famiglia di nomadi è il componente più scontroso e ribelle.

Dopo la partenza degli intrusi, nel cuore dell’inverno la vecchia madre muore. E non dimentichiamo che di vera morte si tratta, poiché Honeyland – Il regno delle api è un documentario: i due registi hanno vissuto in situazione per circa tre anni e il racconto che ci hanno donato è distillato da 400 ore di filmato. Una volta attraversato il momento del dolore, Hatidze è infine sola. Abbandona i luoghi dove ha vissuto per tanti anni, risale un’ultima volta la montagna fino all’alveare che ci era stato mostrato all’inizio, raccoglie il miele che le servirà per il viaggio e parte accompagnata dal cane. Le immagini della sequenza conclusiva sono immerse in una luce trasparente come sa essere soltanto la luce del cielo terso in inverno: Hatidze condivide con il suo cane il miele, cibo degli dei, e fissa il suo sguardo nell’indeterminatezza del futuro. Uno sguardo che sorride. Un’anima libera”.

a cura di Sandra Campanini, responsabile Ufficio Cinema del Comune di Reggio Emilia e Angela Cervi.

Honeyland, che avremmo dovuto proporre al Rosebud, ora è visionabile su Netflix.

 



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