Un caso di Architettura Pubblica

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di Alberto Manfredini

PD (Panorama Design) è il nome di un profilo di alluminio estruso di una importante azienda tedesca, prodotto nel 2020, usato per la prima volta in Italia nel restauro del Seminario Vescovile di Reggio Emilia, con particolare riferimento agli infissi della struttura esistente, opera della ditta bolognese “Curtisa”, chiusa da tempo.
Erano in “ferro finestra” con un particolarissimo sistema di apertura autobilanciato, frutto dell’intuizione del progettista di allora (Enea Manfredini, mio padre) e dell’altissima capacità artigianale e professionale dell’azienda di Bologna.
Non si può dimenticare che gli anni in cui prende corpo la struttura del Seminario di Reggio (’46-’54) sono gli anni più importanti e fertili per l’architettura moderna italiana per una lunga serie di motivazioni, per lo più note, che non è il caso di rammentare.
Vi voglio raccontare dell’ultima vicenda del Seminario, lo avrete capito, partendo dal primo dei molteplici problemi che ci si sono presentati, e che abbiamo dovuto risolvere, per porre l’accento non tanto sul tema del “restauro del moderno” (su cui tra l’altro esiste una copiosa letteratura) quanto sulla conservazione del “patrimonio culturale” e dei “beni culturali” in generale. Il “fondo” del problema, come spiegava molto bene Giancarlo De Carlo in una sua celebre lezione, è di come il significato di un’opera del passato possa essere convertito per essere significativo nel presente, nell’uso e anche nella contemplazione.
Ma soprattutto nell’uso e nella fruizione. Sosteneva che se un’opera del passato non è significativa nel presente, o non è possibile riuscire a renderla tale, cioè utile per la contemporaneità, la sua presenza non significa proprio nulla, anzi finisce per essere inutile e dannosa, perdendo in tal modo la sua ragion d’essere e di esistere, giustificando in ciò la sua sostituzione o, addirittura, la sua eliminazione.

Torniamo per un attimo al nostro infisso in ferro finestra della Curtisa. Disegno raffinato, particolare sistema di apertura, profili di sezione sottile (come tutti i profili in ferro finestra) ma per nulla performante nei confronti della normativa energetica attuale. Ecco la necessità di sostituirlo con un profilo altamente performante ma che non ne snaturasse lo spirito originario.
Stessa geometria sul prospetto, salti di quota nel profilo medesimo come nell’infisso originale (tramite una estrusione speciale eseguita appositamente per questo lavoro), un profilo quindi che “cantasse” e che non fosse “sordo” come ogni infisso in alluminio di oggi (pur essendo anch’esso di alluminio), stesso colore dell’originale, stesso posizionamento in pianta per non alterare il rapporto volumetrico dell’impaginato di facciata preesistente, tapparella coibentata dello stesso colore originario (faticosamente ritrovato nell’archivio dello studio), ecc.
E’necessario ora compiere una riflessione di carattere semantico sul tema della conservazione dei “beni culturali” cui certamente appartiene il Seminario e la sua ultima, recente vicenda, peraltro tuttora in corso.
Perché li chiamiamo “beni culturali” in analogia ai francesi che definiscono lo stesso argomento come “patrimoine culturel”. De Carlo sosteneva che il sostantivo “bene” è assimilabile a bene mobile, bene immobile, a bene di consumo, a bene rifugio e quindi anche a bene culturale ma immaginando il bene culturale come un oggetto del “diritto”, con “portata economica” generando in tal modo un’ambiguità molto forte.
Molte delle difficoltà che incontriamo oggi, ripeteva, quando operiamo in questi ambiti, derivano anche forse da questa non chiarezza semantica nella definizione di patrimonio culturale. Gli inglesi, diversamente da noi e dai francesi, lo chiamano “cultural heritage”. Dove “heritage” vuol dire sì patrimonio ma anche eredità collettiva senza distinzione di razza, di lingua e di livello culturale nell’approccio al problema. Mentre il “bene” impone un distinguo, una distinzione di livello economico. Penso che nel lontano passato, prima che nascesse la consapevolezza del patrimonio artistico, i “beni culturali” venivano considerati se servivano, situazione che dava luogo al loro aggiustamento e miglioramento. Diversamente venivano alienati, distrutti o assimilati a “cave” da cui recuperare materiale.
La situazione a livello pratico muta con i grandi restauri romani del Foro Traiano, del Colosseo, ecc.
A livello teorico la situazione prende corpo solo nella seconda metà del XIX secolo e si orienta immediatamente su tre poli che continuano a sussistere ancor oggi seppur variegati e pur nella indeterminazione di una infinità di loro declinazioni che non è possibile elencare.
Questi tre poli si basano sulla figura e sui testi di tre studiosi.
Il primo è il britannico Ruskin con le sue “The Seven Lamps of Architecture” secondo cui quello che si trovava doveva essere lasciato così come era, inibendo in tal modo ogni sorta di intervento rivolto al cambiamento, all’aggiornamento, all’adeguamento: la via verso la conservazione della “rovina”. Asseriva infatti che “il cosiddetto restauro è la peggiore delle distruzioni”.
Il secondo è il francese Viollet Le Duc con i suoi “Entrétien sur l’architecture” che proponeva di restituire, a ciò che si trova, la propria unità formale originale. Che significa ricostruire, ma con estremo rigore, prendendo a modello situazioni tipologiche analoghe utili a conferire un significato “contemporaneo” all’opera oggetto di restauro.
Il terzo, italiano, è Camillo Boito che propone di considerare le stratificazioni che il reperto ha subito nel tempo perché sono testimonianze importanti delle manifestazioni avvenute lungo il corso della sua vita.
Questo fiorire di idee, affinate in periodo crociano, portò alla stesura di un documento noto. Quella “Carta del Restauro” del ’31 ad Atene (l’inizio di una lunga serie di “Carte” sino a quella del 2000 a Cracovia) che intese porre, nel disciplinare, dei punti fissi.
Dopo la seconda guerra mondiale la speculazione edilizia e fondiaria degli anni ’60 – ’80, con il forte appoggio politico di allora, mise a rischio le forme di tutela o di protezione dei beni culturali generando le tante difficoltà che incontrarono le istituzioni e gli organismi di controllo come le Soprintendenze, segnandole, come diceva De Carlo, con un senso diffuso di pessimismo che continua a sussistere.
Questo per indicare solo alcune delle problematiche teoriche alla base del progetto per la rifunzionalizzazione di un edificio (il Seminario) che da una situazione di oggettiva fatiscenza, a destinazione “privata”, utilizzato solo per un quarto delle sue potenzialità, è destinato a divenire edificio “pubblico” per eccellenza (terzo polo universitario di Unimore).
Intervenire in questo contesto ha significato e significa (perché all’oggi siamo solo alla metà del guado) prima di tutto operare affinché il suo significato originario potesse essere riconvertito per essere significativo pure nel presente. Ciò ha comportato prima di tutto l’individuazione, da parte della Proprietà di concerto con l’Amministrazione Comunale, dell’uso più appropriato. Successivamente la conservazione e valorizzazione delle tensioni spaziali esistenti negli spazi significativi pur consentendo gli aggiornamenti e gli adeguamenti imposti dalle normative attuali e di cui l’esempio iniziale del PD intende essere esemplificativo di una molteplice serie di argomenti affrontati e risolti in maniera contestuale alle considerazioni dianzi esposte.
Quanto poi e come si sia riusciti in questo intento, ad altri spetta il giudizio.

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