“Invito a”: l’artista e la città

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di Elisabetta Farioli

Il concetto di “arte pubblica” sembra oggi avere allargato i suoi confini e assunto diverse declinazioni e modalità di interpretazione. E’ “arte pubblica” solo quella che si realizza fuori dai musei e gallerie o in generale fuori dai luoghi deputati all’esposizione artistica? Oppure quella che presuppone modalità di partecipazione collettiva a partire dalla sua realizzazione? Quanto la sua storia ha a che fare con la tradizione dei monumenti antichi (portati alla ribalta in questi giorni dalla riappropriazione critica che ne mette in discussione i valori fondanti fino all’iconoclastia)? O con le esplicite forme di propaganda dell’arte pubblica negli anni venti e trenta del Novecento?
Quale il rapporto con la committenza (ricordo il dibattito sulla praticamente inesistente applicazione della legge del “2 per cento” che vincolerebbe gli edifici pubblici a destinare questa percentuale dell’importo complessivo dei lavori all’esecuzione di opere d’arte come “abbellimento”)? E come si colloca in questo orizzonte di riferimenti il fenomeno oggi così dirompente della street art ?
Nelle sempre più ampie accezioni di questo termine esige una particolare e specifica collocazione il progetto di committenza pubblica “Invito a” promosso dal Comune di Reggio Emilia (col contributo di Max Mara) nel 2004 che nel giro di due anni ha portato alla realizzazione di quattro opere permanenti per la città.
Già dal titolo, di per sé difficile da pronunciare nella sua incompleta significazione, viene posto però un concetto fondante, se vogliamo una cifra di stile che caratterizza tutta la concezione del progetto. L’idea di invito non rimanda alla più rigida idea di committenza, ma sposta il rapporto su un più ineffabile piano di gentlemen’s agreement, in cui la committenza pubblica si attesta sul ruolo fondamentale della rappresentanza del volere di una comunità ma fin dal principio riconosce il ruolo fondamentale dell’artista “invitato” e si impegna al rispetto della sua libertà creativa.
Non a caso il progetto “Invito a” è curato da un artista, Claudio Parmiggiani. Anzi, a volerne individuare il precedente è opportuno ricordare l’Invito a Claudio Parmiggiani del 2003 quando, in occasione della mostra antologica promossa dalla Galleria comunale d’arte moderna di Bologna, l’artista realizzò per Reggio Emilia l’installazione di due opere presso la Chiesa di San Carlo e l’antica Sinagoga della città.

A illustrare l’idea del progetto lascio dunque la parola al pensiero di Claudio Parmiggiani, affidato a un semplice cartoncino penso ormai di difficile reperimento: “Ho proposto alla città di Reggio Emilia di rivolgere un invito a diversi artisti a progettare, in un rapporto diretto con l’istituzione pubblica, altrettante opere pensate e create per la città, con la precisa finalità di una loro permanenza nel tempo e nei luoghi scelti dagli artisti stessi. Ci si è rivolti ad artisti che, dentro una tradizione, hanno saputo aprire prospettive in una lingua nuova perché creare significa dar vita in eterno ad opere sempre nuove. Invito che ha tenuto conto in primo luogo di presupposti di rigore intellettuale e della riconosciuta importanza della loro opera unita ad una forte consapevolezza di cosa significhi per un artista fare arte oggi”.

Cinque gli artisti coinvolti: Sol LeWitt, Luciano Fabro, Richard Morris, Eliseo Mattiacci, Richard Serra.
Invitati per un primo sopralluogo a Reggio Emilia gli artisti hanno visitato una selezione di luoghi proposti e scelto quello più consono alla realizzazione della loro opera. Il dialogo tra l’artista e il luogo è dunque il presupposto fondamentale degli interventi realizzati.

Come ricorda Claudio Parmiggiani, agli artisti è stato “richiesto di riflettersi dentro la memoria di una comunità e di coniugarsi con il corpo delicato di una città: i suoi luoghi, la sua storia, la sua anima. Che significa, per un artista, non adagiarsi nella compiaciuta contemplazione del proprio manufatto, appoggiato su un qualsiasi piedistallo di un qualsiasi luogo, ma eleggere un luogo ad emblema di un’idea e pensarlo come una voce dentro la propria opera. Pensare non una materia in uno spazio ma lo spazio come una materia.
Comprendere che un’opera dovrà saperci parlare non solo della sua forma evidente, ma attraverso un altro grado della forma.
Farci sentire la sua umanità, rivelarci il suo volto più immateriale, trasmetterci, attraverso se stessa, l’energia, la presenza e la profondità di un luogo che la nutre e le da senso. Che l’opera infine sia questo luogo stesso, impregnato di un pensiero nuovo poiché un’opera non vive in uno spazio ma dentro lo spazio, dentro il tempo e lo spirito che sono in questo spazio. Che significa anche consapevolezza del grande pericolo del formalismo e del decorativismo fini a se stessi in cui l’opera sempre incorre quando nasce priva di qualsiasi legame con lo spazio che l’accoglie, quando vuole imporre se stessa ad un luogo che, per questa ragione, non cesserà mai di esserle nemico e di rifiutarla.
Un’armonia visiva presuppone un’armonia mentale, un matrimonio mistico tra luogo che riceve, come forma materna, e opera come principio germinatore. Opere quindi come altrettante pietre incastonate”.
Sono parole dense, profonde, che ci ricordano la responsabilità e consapevolezza richiesta agli artisti (e ovviamente anche agli architetti!) nel momento in cui sono chiamati a lasciare un segno permanente nella città “tenendo vivo – scrive ancora Parmiggiani – quel gesto che fu anche di Michelangelo, collocando il suo David nella piazza della Signoria di Firenze in un incontro vero della sua opera con la città: il marmo senza tempo accanto al cuore dell’uomo.”

Ma veniamo alle realizzazioni del progetto: la prima opera a essere inaugurata nel 2004 è stata Whirls and Twirls (Vortici e mulinelli) di Sol Lewitt. Secondo il suo metodo di lavoro la concezione dell’artista ha riguardato lo schema compositivo (il disegno su carta da lucido appartiene ora alle collezioni dei Musei Civici di Reggio Emilia) con l’individuazione di sigle per ogni colore; la realizzazione dell’opera è stata poi affidata a un gruppo di nove giovani artisti coadiuvati da Anthony Sansotta, assistente di Sol Lewitt.
L’opera, di grandi dimensioni (mt. 13,30 x 4,6), è stata dipinta sulla volta della Sala di Lettura della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia o, per meglio dire, su un’intercapedine di sughero voluto dalla Soprintendenza ai Beni Artistici per non compromettere in modo definitivo l’antico soffitto secentesco.
Questo particolare, oggi sconosciuto ai più, consente di introdurre un altro tema importante per caratterizzare il progetto “Invito a”. Tre delle cinque opere progettate sono state infatti inserite in contesti storici e monumentali. Esplicita e ferma al proposito la presa di posizione di Claudio Parmiggiani sul dovere della contemporaneità di esprimersi anche rispetto alle preesistenze dei luoghi del passato: “Le opere oggi antiche sono stato un tempo contemporanee e le città hanno sempre sentito in ogni epoca l’esigenza e l’orgoglio di circondarsi dell’arte e degli artisti del loro tempo. Per questa ragione far si che viva, quella pratica, quasi interrotta nel nostro paese, che ha sempre visto la mano e l’opera dell’artista radicarsi esteticamente e politicamente nel corpo della città, adempie ad un preciso dovere. A testimonianza di ciò che è passato, di ciò che sta passando e che verrà”.

Nella realizzazione dell’opera l’équipe al lavoro si è trovata di fronte a un’impresa complessa che l’ha impegnata per circa due mesi secondo rigide modalità di divisione dei compiti e schemi di pianificazione lavorativa, come in una bottega rinascimentale.
Si è trattato dapprima di adattare il progetto alle dimensioni della volta attraverso complessi calcoli matematici e proiezioni geometriche. Gli assistenti, stabilita la scala di ingrandimento, hanno quindi trasferito contro il soffitto il tracciato di riferimento senza avvalersi di sofisticate tecnologie, ma con il solo ausilio di strumenti tradizionali (filo e compassi di legno per tracciare i cerchi). La mascheratura della superficie, eseguita in diverse fasi, ha permesso di stendere il colore in più riprese entro i segmenti disegnati.
È una delle più grandi e mirabili decorazioni di arte contemporanea compiute sulle volte di edifici storici in Europa”, ha scritto Bruno Corà  nel catalogo dedicato all’opera, che prosegue annotando: “l’integrazione e l’accostamento tra colori primari e complementari ha una valenza di accelerazione luminosa, lampeggiante nei gialli, negli aranci e nei verdi, frenante nei viola e nei blu, col risultato di una sorta di sciame cromatico”.
La prima realizzazione è stata accompagnata da una serie di produzioni e iniziative che, con un format prestabilito, hanno caratterizzato anche la promozione degli interventi successivi e in cui ritengo si trovino elementi utili alla considerazione del progetto all’ambito dell’arte pubblica. Visite guidate sui ponteggi, video dedicato alle diverse fasi di realizzazione, una mostra dedicata con pannelli didascalici nello spazio Mostra città di Piazza Prampolini.
E soprattutto attività educative rivolte alle scuole, nel caso di Sol LeWitt particolarmente apprezzate per la possibilità di approfondire tematiche legate ai colori, alle linee e al movimento; i laboratori dedicati sono tuttora tra i must delle proposte educative dei Musei Civici che all’opera hanno anche dedicato una pubblicazione didattica.

 

Seconda opera del progetto, all’interno del complesso monumentale dei Chiostri di S. Domenico, è la scultura Less Than dell’artista americano Robert Morris. Già sono intervenuta su questo portale a proposito del tema della “Speranza” ricordando la parola incisa all’interno del vaso che la figura acefala porta simbolicamente sulle spalle; opportuno è ora ricordare la contaminazione di questa opera “figurativa”, eseguita secondo i canoni della tradizione classica, con i suoni industriali elaborati al computer che ogni sera vengono emessi al crepuscolo.

 

 


Araba Fenice è l’opera permanente di Luciano Fabro pensata appositamente per l’antico Foro Boario di Reggio Emilia, collocata nel 2005 nel colonnato che occupa il piano terreno dell’edificio ora sede universitaria. Si tratta di una colonna di marmo travertino oro, alta circa sette metri e leggermente rastremata verso l’alto. E’ costituita da tre rocchi sovrapposti le cui scanalature regolari sono realizzate secondo la regola vitruviana là dove la materia è uniforme, seguono invece il naturale andamento delle venature del marmo dove queste emergono con forza.
La lavorazione è la combinazione tra come si muove la vena del materiale, l’entasi e la scanalatura. E’ interessante come la colonna parta con un effetto minerale, poi, salendo divenga vegetale e poi animale, quasi come una cartilagine, tenendo insieme tutti i passaggi della natura”. Fabro commenta durante l’installazione: L’idea era di fare una colonna mezza natura” e mezza umana” e aver trovato un edificio che già aveva un suo colore definito e, in coincidenza, aver trovato un travertino che sposava questo tipo di luce, questo tipo di plasticità e anche questo colonnato dell’edificio stesso, sembravano proprio due cose che si andavano cercando..questo conferisce continuità in uno spazio continuo ma fatto di interventi discontinui…”
Fondante per la percezione dell’opera realizzata a Reggio Emilia (Una scultura che gronda luce” secondo la definizione dell’artista) è la luce naturale dello spazio, una luce che sposandosi con la cangiante materia dalle note arancio e violetto, con vene di onice verde, provoca mutevoli vibrazioni sulla superficie.
La colonna di Fabro non sostiene niente, è una colonna artificiale o, forse, è l’immagine di una colonna. In quanto tale essa appare coerente all’œuvre generale di Fabro, che non è uno scultore in senso stretto ma un realizzatore di immagini.[…] è una costruzione ricca di contenuto spirituale che ci propone un elegante enigma” (Rudi Fuchs nel catalogo edito a commento dell’opera ).

 

Per la ex Fonderia Lombardini, ora sede della Fondazione nazionale della Danza, Eliseo Mattiacci realizza nel 2006 Danza di Astri e di Stelle: tre grandi lastre, dieci metri per due che comunicano con l’infinito e che possono essere paragonate ad un antico libro di astronomia su cui sono incisi segni che ci espongono ad una visione misteriosa del cosmo in continua esplorazione.
Eliseo Mattiacci prosegue la sua ricerca artistica che si concretizza in opere di forme essenziali e pure, centrate sulla spazialità, sulla tensione e sull’energia sviluppata dai materiali. Collocate ai vertici di un ideale triangolo isoscele, le gigantesche lastre metalliche verticali poste su una vasta area verde, quasi a negare il loro peso, si stagliano aeree contro il cielo. Portano incise figure e simboli di una geometria celeste ed evocano, nelle intenzioni dell’artista, un ideale osservatorio astronomico, rivolto ad un mondo di poetiche relazioni tra terra e cielo. Così il curatore del catalogo Fabrizio D’Amico: Il ’far grande’ che qui e oggi così visibilmente guida, assieme allo sguardo rivolto al suo cosmo, l’immagine della ’Danza’ appartiene all’ultima stagione di Mattiacci in modo non casuale, e anzi profondamente connaturato.
Fa ormai intimamente parte della sua sfida alla scultura: del rischio, dell’avventura, dello squilibrio che sono da sempre un tratto fondante del suo lavoro, e che oggi implicano anche le dimensioni, il peso, la difficoltà anche fabrile dell’opera. Inerisce al bisogno di confrontarsi con il mondo, quel suo ’far grande’; di entrare in rapporto con le forze che governano quello spazio sconfinato che sente prossimo, incombente, necessario: non mimandole, commentandole o vezzeggiandole, ma opponendovi, come un eroe antico e guerriero, un’azione uguale e contraria, forte e in equivoca”.

 

La realizzazione della quinta opera, ideata dall’artista Richard Serra per il Centro internazionale Malaguzzi, è invece rimasta allo stato progettuale. Reverse Curve (La curva inversa), alta quattro metri e mezzo, una “S” allungata in orizzontale per 30 metri avrebbe dovuto collegare idealmente due edifici del complesso.
A Reggio, nelle parole dello stesso Serra, Reverse Curve avrebbe consentito un orientamento verso e dal Centro, raccogliendo e incanalando persone e bambini attraverso la sua continuità scultorea attraverso un passaggio culturale dalla strada esterna e dall’ambiente urbano verso lo spazio interno della piazza. L’intenzione era quella di realizzare un luogo in cui i bambini potessero giocare e riunirsi: “Senza la loro inclusione l’opera non avrebbe avuto alcun significato” aveva scritto Serra nel 2005.
In realtà l’opera, che a Reggio Emilia non è stata realizzata per problemi economici, nel 2019 è stata presentata dall’artista a New York nella grande galleria d’arte di Gagosian sulla 21/a strada.

Una riflessione utile sul progetto “Invito a” la offre Anna Detherige nel suo intervento Arte e rigenerazione urbana in quattro città italiane, in L’arte pubblica nello spazio urbano – Committenti, artisti, fruitori ( Bruno Mondadori, Milano, 2007). Una delle città indagate è proprio Reggio Emilia che la Detherige sceglie per parlare di Santiago Calatrava e “le infrastrutture come arte”.
Allargando il suo contributo al “rapporto della nuova realtà in forte trasformazione con il vecchio centro storico e gli insediamenti esistenti” si sofferma sul progetto “Invito a” riconoscendone precise
caratteristiche: “Le modalità dell’iniziativa sono la discrezione, il minimalismo, un’attenzione per il dettaglio e per il rapporto con il contesto. Gli interventi, tutti all’interno del centro storico, rilevano, punteggiano, si mimetizzano, quasi fossero delle sonde che silenziosamente fanno vibrare insieme passato e presente”.

Mi piace ricordare al proposito anche un intervento di Uberto Spadoni, Seguendo il filo rosso della contemporaneità pubblicato in apertura del volume di riflessione sui progetti dei Musei Civici Le stanze del tempo (a cura di E.Farioli, Comune di Reggio Emilia, 2013). Spadoni individua una continuità tra i progetti della città sulla contemporaneità a partire dagli anni sessanta, fino a Calatrava, alle realizzazioni per la Cattedrale di Reggio Emilia, alle prime esperienze di Fotografia Europea inserite negli spazi in corso di restauro della città fino al progetto di riallestimento di Palazzo dei Musei. In questo percorso (a cui dobbiamo il riconoscimento oggi di una delle anime identitarie di Reggio Emilia) “Invito a”, grazie alla tesa e lucida progettualità di Claudio Parmiggiani, assume un ruolo centrale. L’arte, nella sua libertà, accende di nuovi stimoli la memoria dei luoghi della città e li avvicina alla sensibilità di oggi. E i nuovi pensieri di tutti cambiano e trasformano il divenire della città. Anche questa è partecipazione.

 

 

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