Reggio United

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Reggio United
Un racconto liberamente ispirato alla storica società sportiva di via Primo Maggio

di Cosimo Bizzarri

“Non esiste solo la vittoria”, esclamò Camellini, osservando una crepa lunga due metri che si apriva sul soffitto degli spogliatoi. Abbassando lo sguardo, passò in rassegna per l’ennesima volta le docce da cui l’acqua usciva come un filo, il legno marcio delle panchine, la macchia di umidità che si spandeva sulla parete a sud. I giocatori si scambiarono qualche occhiata tra di loro, indecisi su come interpretare quella pausa nel discorso prepartita. Poi il capitano, poco convinto, accennò un grido di battaglia. Gli altri gli fecero eco. Camellini riemerse dalla penosa contemplazione e comunicò gli undici titolari.

La Reggio United l’aveva fondata con l’amico Menozzi negli anni Settanta, sull’onda dell’intuizione cartesiana secondo cui, se fai calcio, non ti fai d’eroina. Una quarantina d’anni dopo, ne era presidente e allenatore. Menozzi era il direttore sportivo. La società contava venti allenatori, tutti volontari, e una dozzina di squadre con centocinquanta bambini e adolescenti. C’erano anche una squadra di ragazzi con disabilità psichiche, che faceva il campionato di Quarta Categoria, e un’altra di trentenni che, dopo aver giocato insieme per tutte le giovanili, si erano semplicemente rifiutati di smettere, nonostante le sue minacce.

“Non esiste solo la vittoria”. Quella frase la ripeteva sempre prima delle partite. Ma non era diretta tanto ai giocatori, che di partite ne avevano perse tante, quanto piuttosto ai genitori. Camellini sapeva che dietro a un padre tifoso si nascondeva spesso un ex calciatore frustrato, che spera che suo figlio incarni per diritto genetico le sue aspirazioni giovanili. Questo genere di genitore era il più difficile da convincere, perché spesso scalpitava per vedere il figlio in squadre più blasonate e si eccitava quando lo sentiva definire “un prospetto” da fantomatici cacciatori di talenti, anche se l’erede non aveva ancora l’età per fare le moltiplicazioni. Camellini e Menozzi li lasciavano fare: se li volevano portare in un altro club, erano liberi di farlo. Loro non avrebbero chiesto un euro.

Quella domenica, a vedere l’ultima partita del campionato, c’era anche un osservatore del Parma. Era venuto a vedere Erjon, un’ala sinistra. Veloce. Tecnica. Imprevedibile. Albanese. Come scendeva lui sulla fascia, buttando avanti la palla con un misto di intuito, forza fisica, approssimazione, non sarebbe sceso neanche Skanderberg sul campo di battaglia. Era il più forte di una squadra composta al settanta percento da extracomunitari. “Che poi la maggior parte sono italiani”, puntualizzava sempre Camellini. Nella Reggio United militavano ghanesi, nigeriani, marocchini, tunisini, albanesi, cinesi, bangladesi. Alcuni nati a Reggio, altri no. Alcuni seguiti dai servizi sociali, altri no. Non era una cosa voluta: semplicemente il campo si trovava lì, tra Via Turri, il Don Pasquino Borghi e il Villaggio Stranieri, tutti quartieri ad alto tasso di immigrazione. Il nome non si riferiva alla natura multietnica della squadra, ma a una fusione, avvenuta alcuni anni prima, tra due società della città.

Alla fine del primo tempo, la partita era in equilibrio: 1 a 1. La Reggio United era andata in vantaggio con un gol di Erjon: in una delle sue tipiche folate offensive, aveva mandato fuori tempo i difensori con un paio di finte di corpo, poi aveva esploso un destro a mezzaltezza, sul secondo palo. Camellini comunque era parecchio incazzato, perché va bene che la vittoria non era l’unico risultato possibile, ma perdere una palla come quella del gol del pareggio, con un passaggio in verticale nella propria metà campo, era inaccettabile. Tutta colpa di Guardiola: i giovani guardavano le partite del Barcellona e si convincevano che il calcio fosse un infinito, glorioso tiki-taka: io la passo a te, tu la passi all’altro, l’altro la passa a me di nuovo, finché quasi senza accorgercene non ci troviamo a superare la linea di porta. Peccato che qui fossimo in via Primo Maggio, non al Camp Nou. Martedì li aspettava un allenamento punitivo e didattico: preparazione atletica e diagonali difensive.

Mentre Camellini era immerso in questi pensieri, gli si avvicinò l’osservatore del Parma.

“Allora, possiamo provare il ragazzo?”
“Se a lui sta bene, sta bene anche a me”, rispose.
“Stavolta però, devi accettare che ti diamo qualcosa”.
“Lo sai che non è una questione di soldi”.
“Lo so. Però mandare avanti una società costa. Campi, iscrizioni, spogliatoi…”

A Camellini sembrò che l’osservatore del Parma avesse messo una particolare enfasi su quell’ultima parola: spogliatoi. La voce doveva essere girata. In effetti cadevano a pezzi. E non c’era niente di cui vergognarsi ad accettare un piccolo contributo, per coprire le spese sostenute fino ad allora per allenare Erjon. D’altronde lo facevano tutti.

“Non posso accettare”, rispose Camellini.
“Non fare il testardo”.
L’arbitro fischiò l’inizio del secondo tempo.
“Va bene. Decidi tu quanto”, disse Camellini.

A settembre Erjon cominciò ad allenarsi con le giovanili del Parma. Un paio di volte, un allenatore venne da Camellini per dirgli che aveva sentito dire che stava facendo bene o per mostrargli una pagina di giornale in cui il suo cognome compariva nel tabellino di una partita. Camellini si mostrava moderatamente disinteressato. “Ah, davvero?”, diceva. Oppure: “Mi fa piacere per lui”. O ancora: “Quello che faceva l’ala destra, vero?” L’ex squadra di Erjon quell’anno viaggiò a metà classifica. Alla fine dell’andata aveva totalizzato addirittura sei pareggi a reti inviolate. Erano migliorati nelle diagonali difensive, ma mancava decisamente un guizzo, dal centrocampo in avanti.

I lavori di ristrutturazione cominciarono in gennaio. Fu incaricata un’impresa edile di Gattatico. Albanesi pure loro, montarono le piastrelle nuove, reintonacarono il soffitto e fecero qualche lavoro idraulico, uno spogliatoio alla volta. A maggio, i muri erano candidi come farina, i nuovi poggia-scarpe in legno di teak splendevano, l’acqua scendeva dalle docce in una miriade di goccioline, così fini che sembrava di stare in un centro benessere dell’Alto Adige.

Quell’anno, una delle squadre della Reggio United vinse il campionato studentesco. Camellini salì su uno sgabello e mise la coppa in bacheca, a fianco dei trofei vinti nei decenni e al Premio Integrazione Attraverso lo Sport che aveva ricevuto personalmente dal presidente del CONI. Scendendo dallo sgabello, prese contro la scrivania con il ginocchio e imprecò. Gli capitava spesso in quei giorni. Quando un ragazzo entrò per sincerarsi di cos’era successo, lo cacciò in malo modo, senza nemmeno guardare chi fosse. Quando la porta si aprì di nuovo, gli scappò un urlo, ma il ragazzo sulla soglia non indietreggiò.

“Mister”, disse Erjon.

Non lo vedeva da un anno esatto. Era quasi uguale, fatta eccezione per una cresta alla Balotelli, una maglietta tarocca della nazionale albanese e qualche centimetro in più.

“Cosa ci fai qua?”, chiese Camellini.
“Non ci voglio più andare a Parma”.
“Non ti trattano bene?”
“Non è quello”.
“E allora?”
“Voglio tornare a giocare coi miei amici”.

Camellini provò a farlo ragionare. Quella era una grande occasione. Se si allenava bene, sarebbe potuto diventare un professionista. Magari non avrebbe giocato in Serie A, ma qualche anno nelle serie minori era decisamente alla sua portata. E uno stipendio in più, seppure piccolo, sarebbe stata una piccola vittoria per la sua famiglia, che aveva fatto tanti sacrifici negli anni passati.

“Mister”, lo interruppe Erjon, “Me l’hai detto te, ti ricordi? Non esiste solo la vittoria”.

Poche settimane dopo, la Reggio United partecipava a un torneo estivo che si giocava in sette contro sette, nel campo di Via Primo Maggio. A vedere la prima partita del girone c’era anche l’osservatore del Parma. Fu Camellini ad andargli incontro per primo, con gli occhi bassi.

“Mi dispiace, non so cosa gli sia successo”.
“Non preoccuparti”, gli rispose quell’altro, “Non c’aveva voglia”.
“E i soldi?”
“Indennizzo per tutte le volte che non ti sei fatto pagare”.

Camellini sorrise, gli strinse la mano e si avviò in spogliatoio. La macchia di umidità si era già riformata sul muro a sud, così come il calcare nel soffione della doccia. Ma lui era di buon umore e non ci badò nemmeno. Fece il solito discorso alla squadra e assegnò le maglie dei titolari, che uscirono uno a uno per andare a fare il riconoscimento nel gabbiotto dell’arbitro.

Per ultimo rimase Erjon.

“Mister, dove gioco oggi?”, chiese.

Camellini lo guardò. Indossava la sua vecchia maglia numero 11. Si era coperto l’orecchino con un pezzo di scotch bianco. Stampata in faccia aveva la solita espressione strafottente che mandava fuori di testa i terzini sinistri di tutta la provincia.

“Non importa”, gli rispose, “Basta che fai gol”.


Autori

Cosimo Bizzarri. Giornalista e copywriter, Cosimo Bizzarri è stato executive editor della rivista COLORS, ha scritto due documentari e pubblicato saggi e articoli su testate italiane e internazionali.

Lorenzo Notari (illustrazione in copertina). Laureato in storia contemporanea, Lorenzo Notari lavora come educatore all’integrazione per una cooperativa reggiana e coltiva in privato la sua grande passione: il disegno.

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