Il polittico Griffoni? Un collettivo

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di Angelo Mazza
Storico dell’arte, Ispettore onorario del Ministero per i beni e le attività culturali,
Conservatore delle Collezioni d’arte e di storia della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna

Il Coronavirus resta tra noi, ma la mostra del polittico Griffoni, oscurata per due mesi, apre infine i battenti in palazzo Fava a Bologna. Cos’è il polittico Griffoni? Un complesso di tavole dipinte alla fine del Quattrocento, ciascuna delle quali rappresenta un soggetto specifico apparentemente autonomo.
Esaminiamolo: al centro, rialzato dal basamento è l’immagine apocalittica del domenicano Vincenzo Ferrer, fatto santo nel 1455 a poco più di trent’anni dalla morte, che punta il dito verso Cristo che giudica tra gli strumenti della passione; a sinistra San Pietro con un libro retto dalla mano destra e le grosse chiavi nell’altra.
Gli corrisponde san Giovanni Battista che ci guarda severamente.
In alto le tre tavole con il fondo oro: al centro il tondo con il Crocifisso tra la Madonna e san Giovanni evangelista, a sinistra san Floriano con lo spadone, uno dei protettori di Bologna, a destra santa Lucia protettrice della vista (Lucia/lux) con la palma del martirio e uno stelo nella sinistra che sboccia in due occhi. Sopra, i piccoli tondi con l’angelo che annuncia e la Madonna che, in lettura, ascolta. Infine, in basso, la lunga predella con i miracoli del santo domenicano senza soluzione di continuità. Non tutto è sopravvissuto negli oltre 500 anni di vita. Dei santini che rivestivano i pilastri laterali ne sono rimasti meno della metà.
Ogni pannello ha una propria identità, eppure nessuno è realmente autonomo. L’angelo e la Madonna annunciata si richiamano reciprocamente e uno non può stare senza l’altra. San Vincenzo Ferrer è visto frontalmente e richiede la nostra attenzione, ma comunica con le altre figure, mentre san Pietro e san Giovanni Battista ruotano simmetricamente verso di lui. Anche san Floriano e santa Lucia piegano leggermente verso il centro; soprattutto sono inquadrati dal basso. Pure il tondo con la Crocifissione presenta l’inclinazione prospettica. Benché indipendenti, tutti i pannelli sono legati tra loro da un unico punto di vista, essendo presenze disposte sui diversi livelli di uno spazio reale. Inoltre una cornice in legno intagliato e dorato li raccoglie materialmente (o meglio li raccoglieva un tempo, prima che venisse distrutta) stringendoli in un’entità fisica.
In sostanza un polittico è un collettivo; un sistema che unisce voci diverse che hanno però qualcosa in comune; un complesso di unità tra loro omogenee; un insieme compatibile e coordinato.
Chi garantisce quell’omogeneità? In un certo senso, con Agostino de’ Marchi, il “maestro di legname” che ha disegnato ed eseguito con consumata abilità artigianale la cornice andata distrutta, i due pittori, Francesco del Cossa e il suo collaboratore Ercole de Roberti, pennelli diversi che presuppongono un sostrato di cultura ed esperienze figurative comuni, quelle del Rinascimento ferrarese di cui sono protagonisti assoluti; due inflessioni distinte dello stesso dialetto, voci riconoscibili del medesimo coro. Anche il pubblico dei fedeli che guarda con ammirazione consolida quell’omogeneità, ravvisando nel complesso la proiezione di un’esigenza di culto. Il polittico risponde alle richieste “collettive”.
Ma chi tira le fila?
L’autorità religiosa che vede celebrato il ruolo del santo predicatore nella Bologna del Quattrocento, dove serpeggiano, sottotraccia, idee ereticali? Oppure la facoltosa famiglia Griffoni che, per prestigio sociale, si è aggiudicato l’oneroso patronato di una cappella nella basilica di San Petronio, tempio civico per eccellenza? Committente è Floriano Griffoni e non dobbiamo stupirci se i contemporanei riconoscevano il suo ritratto nel san Floriano che poggia il piede sul davanzale e quello della moglie Lucia Battaglia, morta poco dopo, in santa Lucia che tiene appunto un fiore (Floriano come fiore, in latino flos/floris).
Anche la basilica di San Petronio è peraltro un “collettivo”: il tempio voluto dalla Comunità riassume simbolicamente le rivendicazioni delle antiche libertà comunali dell’intera “collettività” nei confronti dei poteri esterni, anche di quelli ecclesiastici.
In realtà si tratta di quesiti “inattuali” perché dal 1725 il “collettivo” Griffoni non esiste più; o meglio ha cambiato di segno. Annullata la dimensione pubblica, in quell’anno è confluito in una sfera privata. Acquisito da monsignor Pompeo Aldrovandi, poi cardinale, che ristruttura la cappella, viene rimosso dalla basilica, smontato, distribuito in una quindicina di cornici e trasferito nel palazzo di campagna degli Aldrovandi nel Ferrarese, dove si mescola con i dipinti della folta collezione che arreda gli ambienti. Nuovo “collettivo” diviene la collezione nella sua globalità, di cui i pezzi smembrati del politico entrano a fare parte quali opere minori di un gusto che il Settecento non apprezza; smembramento, ma non ancora dispersione.
L’occasione della mostra di palazzo Fava è davvero unica, perché per la prima volta, dopo trecento anni, quei pezzi tornano ad essere un “collettivo”. Ma per breve tempo. Terminata l’esposizione, il predicatore apocalittico tornerà nella National Gallery di Londra, i due santi laterali raggiungeranno la Pinacoteca di Brera a Milano, i tre fondi oro del registro superiore prenderanno l’aereo per la National Gallery di Washington, la predella partirà alla volta della Pinacoteca Vaticana e i due piccoli tondi con l’Annunciazione saranno visibili nella villa Cagnola a Gazzada, nel Varesotto, mentre i santini dei pilastri laterali completeranno la diaspora in direzione di Ferrara (Pinacoteca Nazionale), Venezia (collezione Cini), Parigi (Louvre) e Rotterdam (Museum Boijmans van Beuningen).
Il “collettivo” è andato a pezzi con l’ancien régime, metafora della dissoluzione della storia.

Sito web della mostra https://genusbononiae.it/mostre/la-riscoperta-di-un-capolavoro/

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