Elena Pulcini_quale libertà?

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di Elena Pulcini

Ogni giorno, da quando la terribile catastrofe del corona/virus ci è caduta addosso approfittando della nostra distrazione e della nostra incuria verso il mondo, viviamo in diretta un vortice di emozioni e di esperienze spesso contrastanti. Emozioni che non riusciamo a decifrare data la velocità con la quale si alternano stordendoci con la loro intensità, esperienze che non riusciamo ad afferrare a causa della loro assoluta e inattesa novità. Una novità gravida di lutto e sofferenza, che ci scaglia nostro malgrado nel buio paralizzante dell’impotenza e della paura, o magari ci spinge nel più rassicurante rifugio dell’ironia, con cui creiamo l’illusione di poter restare immuni dalla contaminazione. Eppure, nella monotona ripetizione della routine domestica, dalla quale è stata bandita ogni traccia di divertissement, germogliano nuovi sentimenti, si accendono bagliori di consapevolezza.
Lo shock insomma rivela anche un suo rovescio salutare: soprattutto laddove, nel caos di un indesiderato e radicale cambiamento che fa franare certezze e chiudere orizzonti, torniamo ad apprezzare ciò che, da viziati figli di un illuminismo ormai agli sgoccioli, eravamo da troppo tempo avvezzi a dare per scontato. Stiamo vivendo in fondo gli effetti di un basilare meccanismo psicologico in virtù del quale ci accade di dare valore a qualcosa (o qualcuno) soprattutto quando rischiamo di perderlo. Ma che cos’è che stiamo perdendo? Avvertiamo tutti, evidentemente, la privazione della libertà.
Siamo chiusi in casa, in un lockdown che forse suona meglio in inglese, ma che nella sostanza vuol dire che quasi tutto ci è negato: passeggiare o andare a cena fuori, far visita a un’amica o comprarsi un vestito, partire per un week end o prendere un caffè al bar. Non possiamo neppure andare a lavorare e ci capita persino di rimpiangere cose di cui spesso ci siamo lamentati. Ecco dunque che torniamo a desiderare ciò che finora ci era garantito e che improvvisamente ci viene a mancare consegnandoci alla vertigine di un cambiamento radicale: e riscopriamo l’immenso valore della libertà. Valore sacrosanto, chi mai potrebbe negarlo? Così come appare legittimo il desiderio di poterla al più presto ritrovare per finalmente “tornare alla normalità”.
Ma la domanda è: di quale normalità stiamo parlando? E di quale libertà? domanda cruciale, in cui si gioca oggi la scommessa sul nostro stesso futuro.
Mi ha colpita uno slogan che da un pò circola sui social e che è nato, credo, in Spagna: “Non voglio tornare alla normalità perché la normalità è il problema”. Detto in altre parole, quello che ci sta succedendo altro non è che il frutto di una malintesa idea di libertà, di una libertà diventata sempre più ignara di ogni limite e misura: quella che ci autorizza a sfruttare a nostro piacimento la natura, a consumare in modo compulsivo riempiendo la nostra vita quotidiana di oggetti inutili, ad ubriacarci ogni sera perché siamo giovani e i giovani, si sa, fanno così; a svendere i nostri sentimenti alle lusinghe della società dello spettacolo, a saccheggiare le risorse vitali del pianeta come se fossero infinite; ad ignorare l’altro con la violenza della nostra indifferenza…
Se questa è la libertà che vogliamo riconquistare allora la mia risposta è come quella di Bartleby lo scrivano che ci ammonisce dalle pagine di Melville: “preferirei di no”.
Possiamo invece ridisegnare l’immagine di un’altra libertà. Possiamo imparare dalla perdita, dall’esperienza della vulnerabilità che tutti ci accomuna, per recuperare valori perduti, che abbiamo sacrificato alla nostra hybris prometeica e al desiderio di varcare i confini dell’umano: valori come la dipendenza, la fragilità, la responsabilità. Una libertà senza la consapevolezza della vulnerabilità e senza assunzione di responsabilità è quella ci fa violare l’equilibrio naturale esponendoci al vaso di Pandora di mali che sempre più ci affliggono senza che sappiamo né vogliamo riconoscerli: come l’ormai tristemente familiare spillover, quel salto di specie che abbiamo provocato radendo al suolo foreste e polmoni verdi della terra, finendo per diventare noi stessi vittime di un virus libero di attraversare ogni frontiera e così potente da piegare non solo i nostri corpi ma la nostra stessa forma di vita.
Insomma, in questi tempi bui, come li chiamerebbe Hannah Arendt, abbiamo paradossalmente una chance: quella di mettere in atto un’inversione di rotta; anche perché in realtà lo stiamo già facendo, sebbene stentiamo a diventarne consapevoli. Basti riflettere su alcuni veri e propri rovesciamenti, a cui siamo attualmente costretti nella vita quotidiana, per coglierne tutta la potenzialità eversiva.
Stiamo rientrando in contatto con la nostra interiorità che è da tempo caduta nell’oblio spodestata dalle sirene dell’esteriorità, della passione dell’apparire e dei nostri desideri narcisistici; ridisegnamo il confine tra ciò che è necessario e vitale, e ciò che invece è superfluo e inutile; riscopriamo la pace della solitudine e del silenzio (leggere un libro, ascoltare la musica) rispetto al chiasso di città colonizzate dall’edonismo di masse sempre più urlanti afflitte dalla tirannia della velocità; torniamo ad amare la semplicità di tempi lontani scomparsi dal radar della memoria (fare una torta, cuocere il pane) senza troppo rimpiangere la complessità delle nostre vite mondane, frenetiche e multilevel; percepiamo la prossimità dell’altro nella distanza e inventiamo manifestazioni inedite di solidarietà (come cantare tutti insieme dai balconi); innalziamo la cura, che abbiamo sommerso sotto deserti secolari di incuria, a valore inestimabile, magari esagerandone, come spesso accade con il rimosso, la portata altruistica e salvifica.
Insomma stiamo già praticando, nel perimetro protetto ed intimo delle nostre case, nuove forme di vita, germogli di un’altra possibile libertà: che non si indebolisce, ma al contrario si rafforza se sa integrare la consapevolezza della fragilità dei corpi, della vulnerabilità dell’umano, della solidarietà verso gli altri, della responsabilità verso la natura e il pianeta che ci ospita. E’ solo muniti di questa libertà che possiamo affrontare il momento imminente della liberazione senza cadere nel rischio imperdonabile di “tornare alla normalità”, di ricominciare tutto come prima o addirittura peggio di prima, come se nulla fosse accaduto. Non siamo mai stati così vicini alla chance del cambiamento come lo siamo in queste settimane, nell’attuale “prigionia” dell’immobilità e della clausura. Sta a noi cogliere la chance per dare avvio ad un nuovo inizio e ad un’autentica libertà.

Elena Pulcini (Nouveau Doctorat, Parigi: Sorbonne Nouvelle) è professore ordinario di Filosofia sociale presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Firenze.  Ha posto al centro della sua ricerca il tema delle passioni e dell’individualismo, delle patologie sociali della modernità e delle forme del legame sociale, sviluppando anche una riflessione sul soggetto femminile. Ha inoltre proposto una filosofia della cura per l’età globale. Tra i suoi lavori, alcuni dei quali tradotti nelle principali lingue europee:  L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale (Bollati Boringhieri  2001); Il potere di unire. Femminile, desiderio, cura (Bollati Boringhieri, 2003); La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale (Bollati Boringhieri Ia edizione 2009); primo Premio di Filosofia “Viaggio a Siracusa” 2009 ); Invidia. La passione triste (Il Mulino 2011); “Specchio specchio delle mie brame”. Bellezza e invidia, Orthotes 2017; Responsabilità, Uguaglianza, Sostenibilità. Tre parole per interpretare il futuro (con S.Veca e E. Giovannini), Lampi EDB, 2017. Felicità italiane. Un campionario filosofico (con D.D’Andrea et al. Il Mulino 2016), Cura ed emozioni. Un’alleanza complessa (con S.Bourgault, Il Mulino 2018).  Di prossima pubblicazione: Cura e giustizia. Le passioni come risorsa sociale, Bollati Boringhieri 2020. Ha partecipato e partecipa a trasmissioni culturali radiofoniche e televisive.

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