Note di filosofia_Libertà

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Ivan Levrini ed Enrico Bizzarri, docente ed ex docente al Liceo Ariosto-Spallanzani, sono gli ideatori e curatori di Verso sera, ciclo di conversazioni e letture di filosofia promosso dalla Fondazione I Teatri di Reggio Emilia.

Per gli antichi stoici la vera libertà era interiore, quella che nessun padrone poteva sottrarre ai suoi servi. Dividi le cose in due tipi – insegnava Epitteto – quelle che dipendono da te e quelle che non dipendono da te, e ricorda che sei libero nei tuoi giudizi, nei desideri, nelle avversioni, sul resto sei impotente. La via della saggezza consisteva nell’allenarsi a non dimenticare le tante cose che ci sfuggono, ad esempio cosa pensano gli altri di noi. Poi sfuggono le ricchezze e le cariche pubbliche, e soprattutto il controllo sulla vita e sulla morte.  Il virus che ci costringe alla quarantena ci fa riflettere nuovamente sui nostri limiti, e fa riaffiorare tra di noi un’antica vena di saggezza, tipica delle società contadine. Abbiamo accettato i vincoli imposti alla libertà di movimento senza reagire come buoi, i quali, quando sentono per la prima volta il peso del giogo, scuotono la testa con insofferenza, ma anziché liberarsene aggiungono sventura a sventura. Gli scrittori latini si servivano proprio di quest’immagine per spiegare che a volte le avversità sono più sopportabili se affrontate con serenità d’animo.

Naturalmente, un tale insegnamento, preso alla lettera, oggi ci appare inaccettabile. Il nostro orizzonte di libertà è più vasto, non consiste nella fatale sopportazione del destino avverso. L’idea di ridurre la libertà a serena obbedienza ci fa giustamente orrore. Nel corso della storia abbiamo imparato a usare gli ostacoli per superarli, a immaginare cosa c’è oltre, a criticare l’ordine per cercarne un altro più soddisfacente. L’anelito a una libertà più vasta ci ha permesso nel tempo di scrollarci di dosso parecchi gioghi.L’essere umano conosce il profondo piacere di infrangere i limiti, anche se forse, in questo, come in molti aspetti della nostra esistenza, non facciamo altro che esprimere un’attitudine alla curiosità condivisa coi primati. Ma i limiti ci sono e hanno una funzione. Lo dice anche la psicoanalisi, quando lamenta l’eclissi del padre. In questo momento, a ridosso del 25 aprile e del Primo maggio, date simbolo delle nostre libertà civili e sociali, ci converrebbe riflettere sul senso del limite ricorrendo alle parole di una grande etologa, Jane Goodall, la quale ha scritto in questi giorni che “l’isolamento ci insegna che cosa vuol dire vivere in gabbia”.

L’emergenza della pandemia, se da un lato costringe a rinunce e privazioni, dall’altro aiuta a ricordare che la nostra libertà individuale è connessa a quella degli altri. Lo riconosce la stessa Costituzione nata dal 25 aprile, che concilia il diritto dei singoli alla libertà personale e il dovere di riconoscere la libertà altrui. La libertà personale è inviolabile (articolo 13), compresa la libertà di circolazione e di soggiorno (articolo 16), ma è limitata nei casi che “la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza”. Limiti accettabili solo se temporanei, naturalmente, altrimenti, col pretesto di una permanente eccezione, si potrebbe cadere dallo stato di diritto al regime totalitario, da cui appunto il 25 aprile ci ha liberato settantacinque anni fa. Un’intera tradizione filosofica, da Platone a Hegel fino a oggi, ci soccorre nel richiamare la distinzione fra libertà e licenza, intendendo per licenza il fraintendimento e l’abuso della libertà, l’arbitrio individuale non temperato dal senso di appartenenza a una comunità. La sostituzione del diritto fondato sulla giustizia con l’ammiccamento a quello fondato sulla prepotenza del più forte costituisce la più pericolosa minaccia che uno stato di diritto debba affrontare per evitare la sua degenerazione in tirannide. 

D’altronde la tirannia si può configurare in molti modi. Un liberale come John Stuart Mill metteva in guardia dal conformismo e dal rischio che una società di massa favorisse il dispotismo della maggioranza. Oggi diremmo il pensiero unico. Mill ha affermato che per il singolo e per la società è utile una vasta gamma di caratteri individuali e di culture. La completa libertà della natura umana “di espandersi in direzioni innumerevoli e contrastanti” va tutelata dal rischio di uniformarsi. E se tutti gli uomini eccetto uno avessero la stessa opinione, loro non avrebbero più diritto di farlo tacere di quanto ne avrebbe lui di far tacere loro. Solo in un caso lo stesso Mill riconosceva possibile limitare la libertà individuale: “l’umanità è giustificata, individualmente o collettivamente, a interferire sulla libertà d’azione di chiunque soltanto al fine di proteggersi”, e il solo aspetto della propria condotta di cui ciascuno deve rendere conto alla società è quello che riguarda le conseguenze sugli altri. Per il resto indipendenza assoluta.  La libertà è preziosa, sia quella che ci scioglie dalle catene esteriori sia quella che consiste nel realizzare sé stessi e nell’espandere i propri talenti. 

In un discorso tenuto nel 1955 davanti a un gruppo di studenti, Piero Calamandrei, uno dei padri della Repubblica, lo illustrava dicendo che “la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia” che gli uomini della sua generazione avevano provato per vent’anni, durante il regime fascista. E augurava ai giovani di riuscire a creare le condizioni per non dover più provare questo senso di angoscia: “ricordatevi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare dando il proprio contributo alla vita politica”. Eppure ci capita spesso di non assegnare il giusto valore a ciò di cui disponiamo in abbondanza. Noi occidentali diamo per scontate troppe cose, dal cibo alla salute, dalla libertà all’aria che respiriamo. Qualche anno fa uno scrittore americano, David Foster Wallace, parlando anche lui davanti agli studenti di un college, per riflettere proprio sul valore che hanno le cose di cui si dispone in abbondanza ha raccontato una storiella in cui c’era un’analogia simile a quella usata da Calamandrei. La storiella è questa: «Ci sono due giovani pesci che nuotano uno vicino all’altro e incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice: “Buongiorno ragazzi. Com’è l’acqua”? I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’, quindi uno dei due guarda l’altro e chiede “ma cosa diavolo è l’acqua?”».

Cosa diavolo è questa libertà naturale che consideriamo tanto irrinunciabile da accorgerci della sua importanza solo quando ce la troviamo per qualche motivo limitata? Oggi, costretti dall’emergenza a ridurre la nostra libertà di movimento e di socializzazione, ce ne rendiamo conto più facilmente e forse faremmo bene a non dimenticarlo quando l’emergenza sarà finita.

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