Note di filosofia. Speranza

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Ivan Levrini ed Enrico Bizzarri, docente ed ex docente al Liceo Ariosto-Spallanzani, sono gli ideatori e curatori di Verso sera, ciclo di conversazioni e letture di filosofia promosso dalla Fondazione I Teatri di Reggio Emilia.

Se in tempi tranquilli la speranza di molti è prevalentemente una speranza conservativa (star bene e continuare così, “anche per oggi abbiamo mangiato”), in tempi di crisi – personale, affettiva, economico-sociale, sanitaria – quando il presente è minaccioso e doloroso e il futuro è incerto, coesistono come emozioni dominanti quelle che presentificano il futuro: che sono la paura e la speranza. Sono entrambe passioni d’attesa e sono strettamente correlate: se il presente è minaccioso e il futuro potrebbe essere tempestoso, se le nostre aspettative diventano decrescenti o addirittura angosciose, la risposta emotiva a questo allarme presenta il doppio volto del timore e della speranza. Giacomo Leopardi, uno dei tanti filosofi che hanno guardato non senza sospetto la speranza per il suo carattere illusorio, riconosceva tuttavia che essa ha il potere benefico di liberare dal timore. E Georges Bernanos ha illustrato così questo potere benefico: le speranze sono, dentro a un presente che piange, dei domani che cantano. È in questo significato che è diventata proverbiale la sentenza che risale al poeta greco Teognide: “La sola dea rimasta quaggiù fra i mortali, è Speranza: ci hanno lasciati gli altri, sono ascesi all’Olimpo”.
Quando, come in questo 2020, siamo esposti a nuove forme di preoccupazione e a nuovi rischi di disperazione, dobbiamo forse tentare nuove pratiche di speranza. Molti classici della storia della filosofia non sarebbero d’accordo con questo auspicio, per diversi motivi. Un primo motivo, presente per esempio in filosofi stoici o stoicheggianti, da Seneca a Spinoza, è che praticare la speranza non è un esercizio di razionalità ma un cedimento sentimentale (diffida delle passioni d’attesa, cesserai di temere se cesserai di sperare). Un secondo motivo, pure di matrice razionalistica, è che chi spera riduce, sì, l’ansia del presente, ma disegnando un futuro possibile e tuttavia incerto e compie così l’errore di trascurare l’intelligenza delle cose lasciando prevalere un desiderio vago e astratto. E questo errore di cedere alle passioni d’attesa – terzo motivo – è pericoloso anche per le sue conseguenze politiche, perché ci rende bersagli docili degli appetiti del potere, sempre abilissimo a insinuarsi nelle pieghe irrazionali della mentalità collettiva.
Contro a queste e altre critiche, un filosofo del secolo scorso, Ernst Bloch, ha scritto negli anni Cinquanta un libro imponente, Il principio speranza, nel quale definisce la speranza un continente assai affollato ma inesplorato (s’intende, filosoficamente). Quando uscì la traduzione italiana del libro, negli anni Novanta, Remo Bodei faceva ironicamente notare nell’introduzione che in quegli anni le quotazioni del principio speranza erano molto basse. L’esplorazione di Bloch muove da una sentenza attribuita ad Aristotele, secondo la quale la speranza sarebbe “sogno di uomo sveglio”, quindi niente affatto un impulso sterile e fatalistico ma piuttosto un’arma preziosa capace di non renderci arrendevoli. La realtà, secondo Bloch, non è qualcosa di dato, di statico, ma è qualcosa in divenire. Il suo essere è un non-essere-ancora. La speranza è allora un sentire tutt’altro che sterile e fatalistico, è piuttosto una pulsione umanissima che mette in movimento l’uno o l’altro degli infiniti futuri possibili. È la speranza che ci permette di vivere i mali del presente come “una corteccia provvisoria”, che ci spinge a plasmare immagini di desiderio e ci dispone a progettare il futuro liberandoci dall’alternativa triste di “un’infelicità senza desideri”. Sperare è il nostro modo diurno di sognare, di esercitare la nostra volontà consapevole ad esprimere l’irriducibile aspirazione a una vita migliore. Le immagini di speranza non sono aspirazioni ingenue e astratte ma sono scelte anticipanti dei futuri possibili che desideriamo. “Il voler star meglio non prende riposo. Dal desiderio non ci si libera mai… Non è questo il tempo di essere privi di desideri, e del resto i diseredati non ci pensano nemmeno…”.
Vent’anni più tardi, usciva un altro grande libro di filosofia capace di darci una bussola per il presente e per il futuro: Il principio responsabilità di Hans Jonas. Di fronte all’evidenza che in molti campi, dalla politica al rapporto uomo-natura, quel che si credeva utopico si è voltato in distopico, dovremo forse assai presto riconoscere che l’urgenza di oggi non è quella di guardare al sommo bene ma è quella di prenderci cura responsabilmente, praticando un’etica dell’emergenza, della necessità di “non mettere in pericolo le condizioni della sopravvivenza indefinita dell’umanità sulla terra”. In questa nuova prospettiva indicata da Jonas, la paura e la speranza vengono ridimensionate e restano come nutrimenti della responsabilità. La paura perché ci fa balenare nel pensiero un futuro senza umanità; la speranza perché, come ridefinita da Bloch, anima il coraggio, che oggi non consiste certo nel buttare il cuore oltre l’ostacolo ma piuttosto, per non continuare a essere ladri di futuro, nel praticare la cautela (che del coraggio è il lato migliore) con la pazienza dei piccoli impegni e con la fiducia nei progetti precisi e concreti. Perfino Gunther Anders, l’autore del Principio disperazione, fin dal titolo libro antagonista del Principio speranza di Bloch, chiamava all’impegno col motto: “Ognuno deve essere migliore del suo tempo”.

I pro e i contro in forma breve

  • L’importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all’aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all’esterno può essere loro alleato. Il lavoro di questo affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e cui essi stessi appartengono.  (Ernst Bloch)
  • Forse tutta quest’igiene di non sperare è un po’ ridicola. Non sperare dalla vita, per non rischiarla; considerarsi morto, per non morire. A un tratto tutto questo mi è sembrato un letargo spaventoso, allarmante; voglio che finisca. (Adolfo Bioy Casares)
  • È non è mai alcuna cosa sì desperata, che non vi sia qualche via da poterne sperare. (Niccolò Machiavelli)
  • Anche se il timore avrà più argomenti, scegli la speranza e metti fine alla tua angoscia. (Seneca)
  • Ciò che conta non è l’ottimismo, è la speranza, che non è la stessa cosa. La speranza non può esistere senza coraggio.  (Peter Brook)
  • La speranza è un rischio da correre. È addirittura il rischio dei rischi. (Georges Bernanos)
  • La speranza, al contrario di quanto si crede, equivale alla rassegnazione. E vivere non è rassegnarsi. (Albert Camus)
  • Chi vive sperando muore digiuno. (Benjamin Franklin)
  • La speranza e la paura ci fanno vedere come verosimile e prossimo rispettivamente ciò che desideriamo e ciò che temiamo, ma entrambe ingrandiscono il loro oggetto. (Arthur Schopenhauer)

Per approfondire, un articolo di Francesca Rigotti sul mito di Pandora e sulla speranza secondo Camus: https://www.doppiozero.com/materiali/speranza

In copertina un bucaneve, simbolo di speranza nel linguaggio dei fiori.

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