Francesco Aliberti_il bar delle grandi speranze

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Il bar delle grandi speranze (Piemme, 2007)
J.R. Moehringer

Francesco Aliberti, editore, giornalista  e  fondatore della  casa editrice Aliberti editore, apre la nuova rubrica Baskerville – Divagazioni sui libri con la recensione di Il bar delle grandi speranze (Piemme, 2007)  di J.R. Moehringer.

La gente non capisce quanti uomini ci vogliono per fare un brav’uomo. La prossima volta che vai a Manhattan e vedi uno di quegli imponenti grattacieli in costruzione, fa’ attenzione a quanti uomini sono impegnati in quell’impresa. Per costruire un uomo solido, ci vogliono tanti uomini quanti ne servono per costruire una torre».  Siamo a New York, negli anni Settanta del ventunesimo secolo, quando Steve compra un vecchio locale. Probabilmente stava lì dalla fine del proibizionismo, quando si poté ricominciare a bere e a sbattere i pugni sul tavolo; e poi stava lì in attesa dei soldati tornati dalla guerra, ma anche per i divi del cinema. Ora è “il Posto” per chi torna dalla Guerra del Vietnam, e naturalmente per gli immigrati italiani e irlandesi; per gli operai e i professori; per i camionisti e le segretarie. E per J.R., naturalmente.
Il bar delle grandi speranze (Piemme, 2007), un’appassionante storia di crescita e riscatto, è un moderno Bildungsroman americano (romanzo di formazione) che l’autore, J.R. Moehringer, già premio Pulitzer per Il ritratto di Gee’s Bend nel 2010 e ghostwriter del successo planetario Open, autobiografia del tennista Andre Agassi, ci consegna in forma di memoriale. La trama, in breve, è quella delle grandi storie americane, fatte di abbandoni e di bassi fondi, di vittorie che nascono dal nulla, di sogni e grandi speranze, appunto. J.R. è figlio unico, il padre ha abbandonato lui e sua madre quando era ancora molto piccolo. Il vuoto che ne deriva viene colmato nel pub del quartiere, dove J.R. cerca le figure di riferimento maschili di cui ha disperato bisogno. Così, grazie al Dickens (si chiama proprio così, come il celeberrimo autore del romanzo Grandi speranze), a Manhasset, sobborgo di New York, J.R. può entrare nel mondo degli adulti, alla ricerca di figure maschili, come zio Charlie, il barista. Attraverso gli occhi di J.R. viviamo rituali quotidiani, storie d’amore strampalate, passioni, amicizie, delusioni e fallimenti, sogni di smisurate imprese. Un grande romanzo che insegna ad avere speranza e a non aver paura: «Non devo preoccuparmi di una cosa che non succederà».
Una storia toccante, a volte struggente, sul trovare sé stessi. Sarà proprio quel bar, con l’umanità varia che lo popola, fra un gin e una partita a carte, a crescerlo e a farne un uomo. È anche un percorso alla ricerca della libertà e del proprio posto nel mondo in cui «devi fare tutto quello che ti spaventa, J.R. Tutto. Non parlo di cose che mettono a rischio la tua vita, ma tutto il resto. Pensa alla paura, decidi subito come affronterai la paura, perché la paura sarà il problema più importante della tua vita, te l’assicuro. La paura sarà il motore di ogni tuo successo, la radice di tutti i tuoi fallimenti, e il dilemma di tutte le storie che ti racconterai su te stesso. E qual è l’unica possibilità che hai di battere la paura? Seguirla. Andarle dietro. Non considerare la paura come il cattivo della storia. Pensala come la tua guida, il tuo pioniere». La lezione è forse che imparando a gestire la paura, a convivere con l’incertezza del futuro, si impara anche il coraggio della speranza. E questo Moeheringer l’ha imparato al Dickens, diventato la sua seconda casa occupata, la sua famiglia, la comunità di avventori che lo ha poi preparato al mondo. Per coltivare la speranza e combattere la paura, sembra dirci J.R., servono tante vite oltre alla nostra, perché nella vita non ce la fai mai completamente da solo e ognuno di noi ha bisogno di un bar Dickens personale: «Non ho passato ogni minuto della mia vita in quel bar. Sono andato nel mondo, ho lavorato e ho fallito, mi sono innamorato, ho fatto lo scemo, ho sofferto per amore e ho compreso i miei limiti».
Concludo quindi con una massima tratta dal libro (ne troverete tante altre memorabili, probabilmente utili di questi tempi). È J.R. Moheringer che parla: «Capii che dobbiamo mentire a noi stessi di tanto in tanto, dirci che siamo forti e capaci, che la vita è bella e il duro lavoro avrà la sua ricompensa, e poi provare a trasformare le nostre bugie in realtà. Questo è il nostro compito, la nostra salvezza, e questo legame tra mentire e provare era uno dei tanti doni che mi aveva fatto mia madre, la verità che era sempre esistita dietro le sue bugie». E questa forse è la morale del libro, il forte messaggio di speranza, di fiducia nel mondo e in noi stessi.


Francesco Aliberti, nato a Sassuolo nel 1969, vive  fra Reggio Emilia e Roma. Si è laureato in Italianistica a Bologna con Ezio Raimondi. Ha fondato nel 2001 la casa editrice Aliberti editore, dal 2015 Compagnia Editoriale Aliberti. È cofondatore e azionista dal 2009 de Il Fatto Quotidiano. Nel 2011 ha riportato in edicola con Vauro, Vincino e Cinzia Monteverdi la storica testata di satira Il Male di Vauro e Vincino, una bella esperienza durata due anni. In famiglia produce vini lambruschi reggiani e di Sorbara e aceti balsamici. Con la sigla editoriale Wingsbert House ho unito le due passioni confezionando libri e vini insieme. Come giornalista collabora con ilfattoquotidiano.it  scrivendo di cultura, editoria e arti. Nel 2016 ha aperto insieme ai soci editoriali Aliberti Lab, la divisione della casa editrice dedicata alla comunicazione d’impresa e alla promozione di eventi culturali.

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