La speranza dei cacciatori di microbi

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di Silvia Chicchi
Responsabile delle Collezioni Naturalistiche
dei Musei Civici di Reggio Emilia

Motore potente della Scienza è la Curiosità, che spinge ad osservare, a porsi domande ad indagare a fondo per comprendere e cercare risposte. Scriveva Einstein: “L’importante è non smettere di farsi domande”. Sicuramente la curiosità e una “ingordigia”, potremmo dire, di conoscenza non mancavano a Lazzaro Spallanzani (1729 -1799), di cui i Musei di Reggio Emilia conservano la Collezione naturalistica. Lo scienziato scandianese, complice un’epoca in cui ancora non esisteva nella Storia naturale una rigida suddivisione delle discipline, nel suo inesauribile desiderio di leggere e comprendere il “gran libro della natura”, si era applicato a ricerche negli ambiti più diversi, dalla biologia alla geologia, dalla chimica alla fisiologia, affrontando sfide che precorrevano i tempi. Come le apparenti ‘resurrezioni’ dei tardigradi, la capacità delle lumache decapitate di rigenerare la testa e delle salamandre di far ricrescere interi arti amputati, la misteriosa generazione degli organismi microscopici. Proprio per questo studio Lazzaro Spallanzani è tra i protagonisti di un noto libro divulgativo pubblicato nel 1926, “I cacciatori di microbi”, scritto dal batteriologo statunitense Paul de Kruif (1890-1971) per presentare i protagonisti di un entusiasmante periodo di cruciali scoperte in ambito batteriologico.
Il libro prende le mosse dall’olandese Anton van Leeuwenhoek (1632-1723). Migliorando gli strumenti per osservare l’infinitamente piccolo, Leewenhoek aveva scoperto nelle acque stagnanti, così come nelle infusioni di carne o vegetali, il pullulare di una vita microscopica fino a quel momento sconosciuta. Pur non avendo praticato studi specifici, iniziò a trovare, osservare e descrivere con metodo scientifico diversi tipi di “animaletti” (protozoi, batteri, spermatozoi…) aprendo di fatto la strada alla microbiologia e alla batteriologia.
Corollario delle sue scoperte era stato il ritorno in auge di un acceso dibattito sulla possibilità della “generazione spontanea”, l’ipotesi cioè che la vita potesse nascere spontaneamente da sostanza inanimata, per effetto di una ‘forza vitale’ insita nella materia naturale. Si trattava di una disputa antica, già confutata da Francesco Redi (1626-1697), che, con semplici esperimenti, aveva dimostrato come la nascita di larve nella carne in putrefazione avvenga solo se le mosche possono deporvi le loro uova.

Ma quanto era ormai unanimemente accettato per gli organismi superiori non appariva scontato per gli “animaletti” di Leeuwenhoek, che sembravano comparire dal nulla nelle “infusioni”.
Subito attratto da tale misterioso comportamento, anche Lazzaro Spallanzani era sceso in campo nella diatriba, applicandosi al problema con esperienze condotte con rigore metodologico e costanza: scaldando e poi chiudendo ermeticamente i vasi aveva osservato che anche a distanza di anni nessuna vita si produceva all’interno, mentre nei vasi aperti in breve tempo tornava a pullulare.
Aveva negato quindi la possibilità di una generazione spontanea, iniziando con tale ricerca ad emergere tra i protagonisti della scienza del ‘700.
Non tutti però erano rimasti convinti dalle sue argomentazioni, l’accusa era di aver impedito, con la chiusura dei vasi, la possibilità al “principio vitale” di esplicarsi e la polemica si era trascinata per un intero secolo, fino a che il francese Louis Pasteur (1822-1895), riprendendo e perfezionando le esperienze di Spallanzani, aveva dimostrato inconfutabilmente che è l’aria a veicolare le spore dei microorganismi. Egli aveva fatto scaldare le infusioni, ma senza sigillare i vasi, ne aveva modellato il collo con anse, in cui condensava il vapore: l’aria poteva entrare, ma la carica batterica rimaneva intrappolata nelle anse, lasciando sterile l’infusione.
Confermando che il calore poteva essere usato per distruggere i microrganismi, senza alterare le sostanze e prolungandone la conservazione, Pasteur chiuse definitivamente il dibattito sulla generazione spontanea, fornì un fondamentale contributo alla conoscenza della biologia dei microbi, e diede inizio alla pratica definita, in suo onore, pastorizzazione (subito applicata, con positivi risvolti commerciali, alla conservazione della birra).
Non dimentico di chi lo aveva preceduto, Luis Pasteur teneva appeso alla parete della sua sala da pranzo un ritratto dell’abate Lazzaro Spallanzani, tuttora visibile nella sua casa, divenuta un Museo.
Il contributo di Pasteur alla scienza non si limitò però a questo: egli sviluppò considerazioni sull’asepsi nella chirurgia e a lui si deve la drastica diminuzione dei morti a causa delle infezioni provocate dalla presenza di germi. Si applicò inoltre alla ricerca di vaccini contro diverse malattie, il carbonchio, il colera dei polli, la rabbia. Sperimentò per la prima volta il trattamento antirabbico su un bambino di 9 anni, Joseph Meister, ripetutamente morso da un cane rabbioso, che avrebbe sicuramente contratto la malattia e perso la vita. Nonostante il preparato cui stava lavorando non fosse ancora testato, Pasteur decise, con coraggio (era in gioco anche la sua reputazione), di provarlo sul ragazzo. Riuscì a salvargli la vita, e Joseph diventerà, da grande, suo collaboratore presso il prestigioso Institut Pasteur di Parigi.
Ma la vaccinazione, l’immunizzazione tramite l’inoculazione di un agente patogeno attenuato, aveva già avuto origini qualche decennio prima, alla fine del ‘700, grazie alla intuizione del britannico Edward Jenner (1749-1822), che si era applicato alla ricerca di un rimedio contro il vaiolo, all’epoca tra le malattie infettive più pericolose. Jenner aveva osservato che le persone colpite da una forma di vaiolo leggera, tipica delle mucche (vaiolo vaccino), contratta durante la mungitura, risultavano in seguito protette dal più aggressivo vaiolo umano.
Studiata a fondo la cosa decise con coraggio di effettuare un esperimento: inoculò, con il materiale estratto dalla pustola di una donna colpita dal vaiolo vaccino, un bambino sano di otto anni. Il ragazzo dopo una settimana presentò i primi sintomi della malattia, ma nel giro di qualche giorno guarì. Successivamente Jenner prelevò materiale da una pustola di persona infettata con il pericoloso vaiolo umano e lo inoculò nello stesso ragazzo, che questa volta non sviluppò alcun sintomo della malattia, dimostrandosi immunizzato. Era il 1796. Cominciava la guerra al vaiolo ed era aperta la strada agli studi immunologici.
In un fecondo periodo a cavallo tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del XX si troveranno ad operare e a fare importanti scoperte, contemporaneamente a Pasteur, molti “cacciatori di microbi”: il tedesco Robert Koch (1843-1910), riuscì a identificare il bacillo responsabile della tubercolosi, Mycobacterium tuberculosis (noto come bacillo di Koch), Walter Reed (1851-1902) svelò la patogenesi della febbre gialla, l’inglese Ronald Ross (1857-1932) e il parassitologo italiano Giovanni Battista Grassi (1854-1925) effettuarono contemporaneamente studi sulla malaria, scoprendo il plasmodio nelle zanzare del genere Anopheles, dimostrandone il ruolo nella trasmissione e gettando le basi per la lotta alla malattia; il tedesco Emil von Behring (1854 -1917) e il giapponese Kitasato Shibasaburo (1853 -1931) svilupparono i sieri antidifterico e antitetanico; Alexandre John-Émile Yersin , contemporaneamente a Kitasato Shibasaburo, scoprì il bacillo della peste (Yersinia pestis), mettendo a punto un siero; lo statunitense Theobald Smith (1859-1934) fece importanti scoperte sulle zoonosi, le malattie infettive degli animali che possono essere trasmesse all’uomo (tema ancor oggi di attualità!); il tedesco Paul Ehrlich (1854-1915) ebbe il merito di trovare una cura per la sifilide e introdusse la chemioterapia, cioè l’utilizzo di composti chimici per agire specificamente contro microbi apportatori di malattie infettive.
Molti di questi nomi figurano nel libro “I cacciatori di microbi”, che divenne stimolo per molti giovani ad intraprendere studi in campo medico: Albert Sabin (1906-1993), medico e virologo polacco di origine ebraica, naturalizzato statunitense, disse che la passione per la medicina e la ricerca gli era nata dalla lettura del libro di de Kruif. Sabin ha legato il suo nome al più diffuso vaccino contro la poliomielite, che impediva di contrarre la terribile malattia e veniva facilmente somministrato per via orale, sciolto su una zolletta di zucchero. Prima di iniziare a testare il vaccino sull’uomo, Sabin con coraggio lo provò su se stesso e quando passò a testarlo sui bambini, le prime furono le due figlie di 5 e 7 anni.
Sabin non brevettò mai la sua invenzione, rinunciando allo sfruttamento commerciale, in modo che il prezzo contenuto ne garantisse una più vasta diffusione. «È il mio regalo a tutti i bambini del mondo», aveva dichiarato.
E non è possibile dimenticare, tra chi ha risposto alla speranza dell’umanità di sconfiggere le malattie, Alexander Fleming (1881-1955), universalmente noto per avere scoperto nel 1928 una muffa in grado di uccidere i batteri, la penicillina, dando inizio all’era degli antibiotici (è doveroso ricordare che un medico italiano, Vincenzo Tiberio, già nel 1895 aveva pubblicato uno studio sugli effetti di questa muffa, ma senza sviluppare la ricerca).
Leggendo le biografie dei “cacciatori di microbi”, quelli ricordati nel libro di de Kruif e tanti altri, traspare con forza l’idea che quando dalla scienza pura si passa alla scienza applicata alla salute, accanto alla Curiosità compare la molla della Speranza (sostenuta non di rado dal Coraggio di osare, farsi cavia, mettersi in gioco per salvare vite a rischio della propria). Il desiderio che la ricerca e la sperimentazione possano contribuire alla sconfitta del flagello delle malattie, con cui l’umanità ha da sempre dovuto confrontarsi.
Speranza che accompagna anche oggi i ricercatori, e noi stessi, a fronte di malattie ancora incurabili, e dello stesso Coronavirus, che ci ha riportato a vivere scenari che si credevano allontanati per sempre.
Tornando a Lazzaro Spallanzani e alle sue curiose e pionieristiche ricerche sulle zampe delle salamandre, vale la pena di segnalare che qualche speranza è riposta anche in un piccolo, e buffo, anfibio messicano, l’axolotl. Come le salamandre di Spallanzani, l’axolotl è in grado di rigenerare alla perfezione, da un grumo di cellule indifferenziate che accorrono nel punto della lesione, un arto amputato. Nonostante i 250 anni passati dai primi studi, i ricercatori hanno ancora poche risposte, ma la ricerca sulle incredibili capacità di questi anfibi si collega alla speranza di poter capire i meccanismi per rigenerare tessuti danneggiati e per regolare la crescita delle cellule tumorali. Anche in questo caso la curiosità di Spallanzani aveva aperto una pista.

Link utili per approfondire: https://www.lescienze.it/news/2018/07/07/news/genoma_salamandra_rigenerazione_arti-4040282/

 

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In copertina: Foto di Albert Sabin

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