Note di filosofia _ Curiosità

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Ivan Levrini ed Enrico Bizzarri, docente ed ex docente al Liceo Ariosto-Spallanzani, sono gli ideatori e curatori di Verso sera, ciclo di conversazioni e letture di filosofia promosso dalla Fondazione I Teatri di Reggio Emilia.

È curiosa l’ambivalenza di giudizio che accompagna il concetto di curiosità. Ed è doppiamente curiosa, questa ambivalenza, perché la riscontriamo sia nelle esperienze della vita quotidiana sia nelle riflessioni dei filosofi.
Nel parlar corrente, tendiamo a giudicare con biasimo la tendenza di tante e di tanti a non farsi i fatti propri e a occuparsi di quelli degli altri; così, tanto per avere materia di pettegolezzo.
Le comari della commedia, i perdigiorno del bar di quartiere, i giornalisti che campano di gossip sono alcune delle categorie esemplari della super categoria dei ficcanaso: chi per hobby, chi per mestiere, deridono, calunniano, compiangono, pronunciano sentenze sommarie. È il loro divertissement, avrebbe detto Pascal, la loro allegra distrazione dal guardare dentro se stessi spostando l’attenzione sui fatti degli altri.
Ma se pensiamo alla gioia con la quale i genitori ammirano la prima indole esplorativa di un bambino che procede gattoni a soddisfare la sua curiosità per l’ambiente domestico circostante, che balbetta curioso imitando le voci che ascolta, qui troviamo il valore della curiosità come promessa di apertura ad orizzonti nuovi, di incremento della personalità, come viatico alla conoscenza.
Così gli insegnanti trovano la loro gratificazione professionale nella curiosità che hanno saputo accendere in qualche studente. Così i turisti e i vacanzieri amano saziare la loro curiosità cercando altrove quel che la tirannia della consuetudine non gli dispensa fra le pareti del paesaggio quotidiano.
Insomma questa curiosità, questa umanissima risorsa, accende le nostre ore e i nostri giorni manifestandosi di volta in volta come lecita o illecita, come vizio o come virtù. I filosofi si sono sempre interrogati sulla questione della curiosità: nell’antichità e nel medioevo cristiano con maggiore propensione verso il suo aspetto vizioso: chi si crede di essere l’uomo, che pretende di conoscere gli arcani della natura, che si lascia prendere dalla passione di potere sapere e spiegare tutto, che prova piacere a esercitare l’ingegno costruendo minuziosamente le sue arbitrarie rappresentazioni della realtà?
Tuttavia, già in quei classici possiamo trovare molti distinguo: la curiosità non è sempre malsana, può anche essere onesta; non è sempre bulimica, può anche essere pia; non sarà un bene, ma certo è un piacere perché è per natura che siamo spettatori del mondo. Lo scettico Montaigne, che pure definiva la curiosità uno dei flagelli del nostro animo, la considerava anche come una forma di generosa ignoranza, di ignoranza non rassegnata, non arrendevole. E la accompagnava nel nostro sentire moderno, soggettivo, con l’invito a spostarla dall’attenzione all’esterno all’attenzione verso la nostra interiorità, attualizzando così la lezione socratica del Conosci te stesso.

Nell’età moderna la curiosità dei filosofi e degli scienziati si è robustamente affrancata dalle considerazioni di ordine metafisico, religioso e morale e da oggetto di riprovazione è diventata oggetto di esaltata apologia. Hobbes può definire l’uomo animale curioso, Kant sceglie il motto oraziano sapere aude come insegna dell’Illuminismo, l’intero suo secolo (e i successivi) vedono esplodere senza riserve, in estensione e in profondità, una curiosità scientifica spregiudicata e versatile (si pensi al nostro Lazzaro Spallanzani, alla smania classificatoria di Linneo e degli enciclopedisti).
Conosciamo bene i poderosi benefici di questa onda lunga del progresso scientifico, tanto bene che il pensiero critico ne conosce ormai anche le ombre e le minacce, come dicono questi due esempi: la smania di sapere di Bouvard e Pécuchet, i personaggi di Flaubert che più studiano e più diventano stupidi; e quel dubbio bioetico di Rita Levi Montalcini a proposito della clonazione umana: ci sono cose che grazie alla scienza si possono fare ma che è bene non fare.
Chissà (speriamo) se nonostante queste e tante altre riserve possiamo ancora condividere il sogno di una nuova era della curiosità auspicato da Michel Foucault in un’intervista di quarant’anni fa:

Ci sono moltissime cose da conoscere: fondamentali, terribili, meravigliose o strane, insieme minuscole e capitali. E poi c’è una curiosità immensa, un bisogno, un desiderio di conoscere. Ci si lamenta sempre che i media imbottiscono la testa delle persone. In questa idea c’è della misantropia. Credo, invece, che le persone reagiscano; più si cerca di convincerle, più si interrogano. Lo spirito non è una cera molle. È una sostanza reattiva. E il desiderio di saperne di più, meglio e diversamente, cresce man mano che si cerca di imbottire le teste.
La curiosità è stata un vizio stigmatizzato di volta in volta dal Cristianesimo, dalla filosofia e persino da una certa concezione della scienza. Curiosità, futilità. Eppure, la parola mi piace. Mi suggerisce una cosa affatto diversa: evoca la “cura”, l’attenzione che si presta a quello che esiste o potrebbe esistere; un senso acuto del reale, che però non si immobilizza mai di fronte a esso; una prontezza a giudicare strano e singolare quello che ci circonda; un certo accanimento a disfarsi di ciò che è familiare e a guardare le stesse cose diversamente; un ardore di cogliere quello che accade e quello che passa; una disinvoltura nei confronti delle gerarchie tradizionali tra ciò che è importante e ciò che è essenziale.
Sogno una nuova età della curiosità. I mezzi tecnici ci sono; il desiderio c’è; le cose da conoscere sono infinite; le persone che possono impegnarsi in questo lavoro esistono
”.
(in: Archivio Foucault 3, Feltrinelli 1998, traduzione di Sabina Loriga).

 



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