La pandemia ha colpito il lavoro delle donne

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Più precarie tra gli indipendenti, spesso a termine tra i dipendenti, le donne lavorano nei settori più penalizzati dai lockdown. Come la pandemia ha colpito l’occupazione femminile in Italia, un’analisi a partire dai dati dell’ultimo rapporto integrato sul mercato del lavoro

22/03/2021
Paola Villa

Ha impressionato l’opinione pubblica, ma anche chi per mestiere segue i risultati delle indagini Istat sulle forze di lavoro, il crollo del tasso di occupazione femminile tra dicembre 2019 e dicembre 2020: dal 50% all’48,6%, a fronte di una modesta contrazione per gli uomini (figura A). Se alla vigilia della crisi pandemica raggiungere l’indipendenza economica era ancora un miraggio per la metà delle donne in età lavorativa, a dicembre 2019 il tasso di occupazione femminile per la prima volta aveva sfiorato il 50%, un risultato molto magro (figura B) se messo a confronto con il dato medio per l’Ue27, pari al 63%, e con l’obiettivo della Strategia di Lisbona, pari al 60%, che si sarebbe dovuto raggiungere entro il 2010.

La recente pubblicazione del Rapporto integrato sul mercato del lavoro 2020[1] conferma il carattere straordinario dei contraccolpi della pandemia sul mercato del lavoro, ed evidenzia come le categorie più penalizzate dall’emergenza sanitaria siano state quelle già in precedenza caratterizzate da situazioni di grande svantaggio: le donne, i più giovani (15-24 anni), e gli stranieri.
Le analisi proposte, che integrano diverse fonti statistiche e amministrative, mettono in luce le conseguenze che le misure di contenimento della pandemia hanno avuto sul mercato del lavoro, mostrando come (almeno fino al terzo trimestre del 2020) siano state soprattutto le donne a pagare il prezzo più alto.[2] Quanto all’occupazione femminile, gli effetti più pesanti sembrano essere stati quelli sulle donne che già in precedenza erano in posizione di maggiore fragilità – associata a un livello di istruzione medio-basso. Ovvero, proprio quelle che il nostro paese non è mai stato in grado di integrare nel lavoro retribuito.
I dati di contabilità nazionale mostrano riduzioni consistenti sia di posti di lavoro che di ore lavorate nel corso del 2020. Tra le misure messe in atto per fronteggiare gli effetti della pandemia, il blocco dei licenziamenti per i lavoratori dipendenti ne ha limitato l’impatto negativo sull’occupazione (-1,9%), scaricandone i contraccolpi sulle ore lavorate (-8,4%). L’impatto sui lavoratori indipendenti è stato simile ma più pesante, sia per le posizioni lavorative sia per le ore lavorate (-2,7% e -14,1%, rispettivamente, tabella 1).
Le analisi presentate nel rapporto, basate su rilevazioni statistiche e dati di fonte amministrativa, permettono di evidenziare le cause dell’aumento del divario tra uomini e donne nel mondo del lavoro durante la pandemia.

Tabella 1. Posizioni lavorative e ore lavorate, primi tre trimestri 2019-2020 

Fonte: Istat, Conti nazionali trimestrali (in: Il mercato del lavoro 2020. Una lettura integrata, p.16)

Le donne sono più precarie tra gli indipendenti

Sappiamo dalla rilevazione sulle forze di lavoro dell’Istat che si è verificata una maggiore contrazione dell’occupazione indipendente tra le donne rispetto agli uomini tra il quarto trimestre del 2019 e il quarto trimestre del 2020, sia in valore assoluto (-101 mila e -31 mila, rispettivamente), sia come variazione percentuale (-6,1% e -0,9%). La maggiore fragilità dell’occupazione indipendente per le donne suggerisce che per molte la scelta del lavoro autonomo è un ripiego alla mancanza di alternative.

Le donne hanno più spesso un contratto a termine

Minori ingressi e maggiori uscite dall’occupazione nel corso del 2020 riguardano soprattutto i dipendenti a termine. Le misure restrittive imposte per contenere la diffusione della pandemia hanno avuto un pesante impatto negativo sulla continuità occupazionale dei lavoratori con contratti a termine. E tra i lavoratori dipendenti occupati nel settore privato, l’incidenza dei contratti a termine è maggiore tra le donne rispetto agli uomini (16,78% e 14,96%, nel 2019).[3]
Già all’inizio del 2020, a partire dalla dichiarazione dello stato di emergenza del 31 gennaio, le aspettative negative sull’andamento della domanda in gran parte delle attività economiche si sono tradotte nel mancato avvio di nuovi rapporti di lavoro. Nei mesi successivi, in concomitanza con le misure di lockdown di marzo ed aprile, il calo della domanda ha impattato pesantemente sui lavoratori a termine “il contratto è arrivato alla sua fine naturale senza che venisse prorogato o trasformato prima della scadenza”, si legge nel rapporto. La crisi occupazionale dovuta all’emergenza sanitaria ha così avuto “l’effetto di acuire alcuni dei divari preesistenti nel mercato del lavoro, primo fra tutti quello di genere”.

Le donne lavorano soprattutto nei settori più colpiti dalla crisi

L’andamento dell’occupazione nel corso del 2020 si presenta molto diversificato per settore di attività, come effetto delle chiusure selettive imposte per fronteggiare l’emergenza sanitaria. I cali più rilevanti registrati nel secondo e nel terzo trimestre del 2020, rispetto agli stessi trimestri nel 2019, hanno riguardato i servizi domestici (-16%, e -6,7%, rispettivamente) e il comparto alberghi e ristorazione (-16%, -10,8), seguiti dal commercio (-5,8%, 4,2%). Già a partire dai primi di febbraio si osservano una riduzione degli ingressi (assunzioni) e maggiori uscite dall’occupazione (mancato rinnovo dei contratti a termine in scadenza, mancato avvio di nuovi rapporti di lavoro) in settori femminilizzati, con un intenso utilizzo di contratti a termine.[4]

Le donne che hanno perso il lavoro hanno meno probabilità di rientrare

I lavoratori interessati da almeno una cessazione contrattuale, limitatamente al settore privato, nel periodo che va dall’1 febbraio al 3 maggio 2020,[5] sono 1 milione e 355 mila, con una contrazione, rispetto allo stesso periodo nel 2019, pari a circa il 10,5% del totale. La riduzione delle cessazioni va letta considerando l’effetto esercitato dal blocco dei licenziamenti, accompagnato dal massiccio ricorso alla Cassa integrazione guadagni (Cig), che ha protetto gli occupati con contratti di lavoro permanente.
Per gli occupati con contratto a termine l’arrivo della scadenza sì è tradotto nella cessazione del contratto – niente proroga, o trasformazione. Per il 2019 la distribuzione per sesso delle cessazioni contrattuali è simile alla composizione per sesso dell’occupazione dipendente del settore privato;[6] per il 2020 si osserva invece uno spostamento a sfavore delle donne (tabella 2).

Tabella 2. Individui interessati da almeno una cessazione contrattuale dal 1 febbraio al 3 maggio per sesso nel 2019 e nel 2020

Fonte: Elaborazioni ANPAL su comunicazioni obbligatorie (in: Il mercato del lavoro 2020. Una lettura integrata, p. 91)

Sebbene ridotto rispetto al periodo corrispondente nel 2019, il flusso delle cessazioni durante l’emergenza pandemica (1 febbraio – 3 maggio 2020) è stato comunque significativo. Per mettere a fuoco le differenze di genere nel reinserimento, il rapporto considera quanti dei lavoratori e delle lavoratrici interessati da una cessazione di rapporto nell’intervallo temporale dell’emergenza risultavano avere un rapporto di lavoro avviato nei cinque mesi successivi (dalla fine del lockdown al 30 settembre).

Il numero di reingressi nel lavoro è molto basso, ma con uno svantaggio significativo di genere: 42,6% per le donne rispetto a 52,7% per gli uomini. In breve, il rimbalzo dell’economia, dopo il lockdown, non si è tradotto per la maggioranza delle donne che aveva perso il lavoro in un nuovo contratto a termine.

Le donne beneficiano meno della cassa integrazione

Per affrontare l’emergenza sanitaria nel contesto della pandemia, dalle fine di febbraio 2020 è stato consentito alle imprese un ampio ricorso alla cosiddetta “Cig-Covid” per gestire le sospensioni dell’attività produttiva connesse direttamente ai provvedimenti di lockdown o indirettamente alla caduta della domanda, e indennizzi per i lavoratori autonomi.
Tra marzo e settembre 2020, i dipendenti sospesi (per periodi di tempo variabili) e interessati dal ricorso alla Cig-Covid sono stati circa 6,1 milioni, quasi la metà dei dipendenti delle imprese private (tabella 3). Il ricorso alle sospensioni per settore di attività è stato molto differenziato, con l’incidenza più elevata (pari al 71,3% del totale dipendenti) nel settore alloggi-ristorazione, e quella più bassa (15,4%) nelle utilities.
Il dato sorprendente non è l’elevata variabilità del ricorso alla Cig-Covid per settore, ma la forte penalizzazione delle donne. La composizione per sesso risulta fortemente squilibrata: a fronte del 42,1% delle donne dipendenti sul totale, solo il 27% risultano beneficiarie di Cig. Questo fa supporre che una quota significativa di donne non abbia potuto usufruire della Cig-Covid durante la pandemia per il venir meno della relazione contrattuale. È quindi uscita dal mercato, in quanto occupata con un contratto a termine arrivato a scadenza e non rinnovato.

Tabella 3. Dipendenti e cassintegrati (settore privato) per sesso. Marzo-settembre 2020 (valori assoluti in migliaia)

Fonte: Elaborazioni su dati Inps (in: Il mercato del lavoro 2020. Una lettura integrata, p. 112)

Per concludere. Le donne presenti nel mercato del lavoro in Italia stanno soffrendo, durante la crisi pandemica, di grossi svantaggi. Si riduce il tasso di occupazione delle donne (da 50% a 48,6%, figura A), si amplia il gap occupazionale tra donne e uomini (da 17,9 a 18,9 punti), e si allarga anche la distanza dalla media europea (figura B).

Le analisi presentate nel rapporto suggeriscono che a essere più penalizzate siano proprio le donne che prima della pandemia erano riuscite ad accedere all’occupazione solo attraverso contratti precari, in settori caratterizzati da un elevato ricambio. È ragionevole ipotizzare che tra queste lavoratrici ci sia una elevata incidenza di donne con un basso livello d’istruzione, al più la licenza di scuola media. Ed è proprio questo il gruppo di donne che l’Italia non è mai riuscita a integrare nel mercato del lavoro e sul quale si dovrebbero concentrare gli sforzi delle politiche, se vogliamo portare l’occupazione femminile almeno alla media europea.

Fonti:
Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro; Eurostat, database (labour force survey)
Note:
[1] Si tratta del quarto rapporto annuale, frutto della collaborazione tra Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Istat, Inps, Inail e Anpal.
[2] Il rapporto integrato considera l’evoluzione del mercato del lavoro fino al terzo trimestre del 2020.
[3] Inps, Osservatorio sui lavoratori dipendenti del settore privato.
[4] Inps, Osservatorio sui lavoratori dipendenti del settore privato, media annua per il 2019.
[5] Ovvero, dalla dichiarazione dello stato di emergenza fino alla fine del lockdown.
[6] Inps, Osservatorio sui lavoratori dipendenti del settore privato.

Paola Villa
Economista, Ph.D alla University of Cambridge, è docente presso il Dipartimento di Economia e management dell’Università degli Studi di Trento. Il suo campo di ricerca principale è l’economia del lavoro. È autrice di numerosi studi con riferimento specifico alle dinamiche dell’occupazione e della disoccupazione. Ha dedicato una parte rilevante dell’attività di ricerca degli ultimi anni alle problematiche connesse con l’integrazione delle donne nel mercato del lavoro.

 


 

Questo articolo è comparso originariamente su inGenere. InGenere.it è una rivista on-line di informazione, approfondimento e dibattito su questioni economiche e sociali, analizzate in una prospettiva di genere.

 

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