Con gli occhi di una bambina

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Genoeffa, Lucia e Maria, un legame di filiazione elettiva

di Laura Artioli

Quando il destino di Lucia Sarzi incrocia quello di Genoeffa Cocconi e di Maria Cervi, è forse la fine del 1941, l’Italia già in guerra.
Genoeffa aveva allora sessantaquattro anni, e governava, con la sicurezza derivata da un radicamento secolare alla terra, l’andamento domestico della sua grande famiglia contadina, i Cervi – il marito, sette figli maschi ancora in casa dopo che le due figlie si erano sposate, tre nuore e sei nipoti -, affittuari ai Campi rossi, nel comune di Gattatico.
Era una donna operosa, timida all’apparenza e fine, di sentimenti religiosi, curiosa del mondo. Che la sera diceva ai suoi: state qui che leggiamo. Si trattasse della Bibbia, de I promessi sposi, de I reali di Francia o della Commedia dantesca, Genoeffa interpretava bene i dialoghi con voci di teatro, diversa una dall’altra, e sapeva appassionare, ricorda suo marito Alcide. E quando raccontava fiabe, anche lei aveva i suoi numeri, come negli spettacoli, e i figli gli chiedevano sempre quelli. Erano storie semplici, le sue, dove i cattivi venivano puniti e i buoni risultavano anche i più astuti, perché voleva insegnare a rispettare gli altri e a essere larghi di cuore.

Nulla in comune, si direbbe, con la ventunenne Lucia – una attrice girovaga di origini mantovane, che si esibiva all’epoca nei paesi della collina e della pianura reggiana con la compagnia teatrale dei suoi -, che non aveva mai avuto una casa vera e propria ed era cresciuta in una famiglia di eccentrici, creativi, insofferenti di disciplina e pronti a levare le tende se la piazza non si rivelava favorevole.
La differenza costitutiva di Lucia rispetto alle coetanee – comprese le giovani spose dei Cervi – consisteva nella libertà, nella disinvoltura e nell’uso di mondo che il teatro le conferiva. Priva, come i suoi fratelli Otello e Gigliola, di studi regolari, la consuetudine quotidiana con i copioni da mandare a memoria e con le storie che rappresentavano collocava loro fin da bambini in un sopramondo ricco, movimentato, emozionante, del quale padroneggiavano il linguaggio fiorito e i colpi di scena. Anche lei era una lettrice appassionata, in grado di cavarsela bene nelle più varie circostanze, perché recitava da quando era piccola e aveva imparato qualcosa da tutte le donne che aveva interpretato.

Alla fine del ’41 Maria, la figlia di Antenore e Margherita Agoleti, aveva solo sette anni. Bimba felice in famiglia felice, scriverà di sé molto più tardi. Era la più grande dei nipoti, e dalla nascita dei due fratellini dormiva nella stanza dei nonni. Sua cugina Luciana – figlia di Agostino – era ancora troppo piccina perché loro due uniche femmine potessero spalleggiarsi a vicenda, e i maschietti di casa la escludevano dai loro giochi. Ma lei andava già a scuola, e la domenica suo papà la portava sulla canna della bicicletta a scoprire l’universo intorno a casa.
Lucia approda ai Campi rossi – quali siano state le circostanze del suo incontro con Aldo Cervi, il più acceso politicamente dei suoi fratelli – perché i dirigenti di Parma del Partito comunista clandestino le avevano assegnato l’incarico di ritessere, nelle contrade del Reggiano, le fila degli antifascisti disperse dagli arresti e dal confino, servendosi della copertura che il teatro le garantiva.
Mentre i Cervi, dal canto loro, già si andavano opponendo al regime con azioni di propaganda e di sabotaggio. E ben presto la cascina dei Campi rossi si troverà al centro della strategia da ape impollinatrice della giovane Sarzi, la preferita di tutte le tane che Lucia si sarebbe scavata in giro per la campagna reggiana fra il ’41 e il ’43.

Credo che se mai lei, che era nomade per indole profonda prima che per mestiere, abbia avuto nostalgia di una casa, sia stato proprio ai Campi rossi.
Perché è evidente che i Cervi e i Sarzi erano fatti per intendersi, e che l’affinità elettiva – prima ancora che cospirativa – che scatta fra Lucia e Aldo si radica in una comune sfera domestica dell’immaginativo rappresentata da Genoveffa. La madre alla quale Aldo somigliava e alla quale era tanto legato.
Si trattava di qualcosa di molto preliminare alla politica, che aveva a che fare con la lingua materna, con l’incantesimo della parola che addomestica e guarisce. Entrambe, Genoveffa e Lucia, erano infatti voce che racconta, orizzonte che si allarga, capacità di prefigurare e profetizzare.
E’ come se esistesse – fra queste due donne così diverse – un legame di filiazione simbolica espresso attraverso un gesto che più ancestrale e materno non si può. La tazza di latte con dentro il pane tritato fine che Genoveffa faceva trovare a Lucia, a qualunque ora lei arrivasse, dentro il grembo caldo della stufa. Come se tutto si riducesse a questo gesto di attesa e accettazione incondizionata.
Lo stesso legame che si stabilirà poi con Maria, a guerra finita, quando Lucia tornerà ai Campi rossi e, raccontando per ore e per giorni l’epopea che aveva vissuto insieme ai Cervi al tempo della clandestinità, restituirà all’orfana ragazzina la famiglia perduta. Precipitata dal suo naturale baricentro dopo la fucilazione degli uomini di casa, il 28 dicembre 1943.  Anche fra loro era intervenuto un passaggio di forte valenza simbolica: a Caprara, fra la primavera e l’estate del ’43, quando i Sarzi avevano rappresentato La maestrina, di Niccodemi, Maria aveva interpretato la parte della bimba di Lucia, la figlia che si credeva smarrita ed era stata ritrovata.
Maria ricorda come questa scelta l’avesse riempita di orgoglio, e anche la commozione intensa, autentica, del momento in cui avveniva il riconoscimento sulla scena.
Lei che, negli anni in cui Lucia andava e veniva dai Campi rossi – a discutere di politica con gli uomini e a organizzare campagne di proselitismo -, si nascondeva dietro le porte per vederla arrivare e sentirla parlare, affascinata dalla sua disinvoltura e dal suo linguaggio così diverso dal dialetto di casa.

Dopo la Liberazione, Maria era una adolescente e Lucia già una donna fatta. Ma questo loro trasmettersi memoria e trasferirsi una altissima responsabilità della parola – Maria, alla quale il museo Cervi deve quasi tutto, passerà poi la vita a testimoniare la storia della sua famiglia – ha garantito che nulla sarebbe andato perduto. Non si tratta che di una conferma. Perché si sa fin dal principio che le donne disfano e rifanno le trame del mondo e il destino della specie, salvano vite e annientano i tiranni con un filo di lana e di voce, un racconto irresistibile, un orecchio che ascolta cantare.


Laura Artioli, laureata in filosofia, ha lavorato in ambito socio-educativo e da studiosa indipendente si dedica alla ricerca storica e antropologica. Fra le sue pubblicazioni più recenti: Storia delle storie di Lucia Sarzi, corsiero, Reggio Emilia, 2014 e Con gli occhi di una bambina. Maria Cervi, memoria pubblica della famiglia, Viella, Roma, 2020.

 

 

 

 

 



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