Abbiamo ancora bisogno dell’8 marzo

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di Elisabetta Salvini

Abbiamo ancora bisogno dell’otto marzo. Un bisogno che parte da noi, dalle nostre vite minacciate dalla pandemia, ma ancora di più da una cultura patriarcale che respiriamo, mastichiamo, ingurgitiamo e digeriamo come se fosse la sola possibile. La sola immaginabile e desiderabile, quando in realtà sappiamo che non è così. Che non può e non deve essere così.

L’otto marzo è la giornata internazionale della donna, una giornata che affonda le sue origini lontano nel tempo, in un luogo non del tutto determinato. Come se fosse una favola da raccontare e non una verità storica da ricordare e celebrare. C’era una volta un otto marzo di tanti anni fa, a Boston o a Chicago o a New York o in Russia, una fabbrica che prese fuoco e molte operaie (anche sul numero delle donne morte ci sono tante diverse versioni) che morirono a causa dell’incendio. Un racconto tragico di lavoratrici rinchiuse all’interno dello stabilimento per impedire loro che dessero vita ad uno sciopero, finalizzato alla richiesta di diritti fondamentali, da sempre negati. La morale della favola è evidente: le donne sono le vittime e il padrone, uomo, il cattivo, lo sfruttatore.

Una morale che piace, perché è rassicurante e perché riporta ad una visione – anche storica – che conosciamo bene. Quella che narra di donne lavoratrici e martiri, il cui sacrificio è da assurgere ad emblema della lotta contro un capitalismo crudele, ma collocabile in un tempo remoto e indefinito. Una storia che è tanto lontana da diventare nebbiosa, fumosa, proprio come il fumo che si sollevò dallo stabilimento industriale. Eppure l’otto marzo non ha niente a che fare con questa narrazione.

L’otto marzo 1910 a Copenaghen, durante la seconda Conferenza internazionale delle donne socialiste, la tedesca Clara Zetkin propone un’idea tanto semplice, quanto potente. Istituire una giornata comune, nella quale, in ogni paese, le donne potessero rivendicare diritti fondamentali di uguaglianza ed emancipazione. Portare al centro del dibattito politico, almeno per un giorno, non il sacrificio e il martirio femminile, ma le rivendicazioni e le lotte femministe. Dal suffragio, al diritto all’istruzione; dal lavoro alla richiesta di una giusta ed equa paga. Istanze che saranno il cuore delle battaglie femministe della prima metà del Novecento in Europa e negli Stati Uniti.

Questo è l’otto marzo: giornata internazionale della donna. Non una festa edonistica e commerciale, ma una precisa richiesta politica. Un giorno in cui, ancora, dobbiamo pretendere che le parole e le battaglie femministe e transfemministe trovino megafono nelle piazze e nelle sedi della politica.
Ancora. Perché ancora c’è n’è bisogno.
Nel corso del Novecento, secolo tragico e magico al tempo stesso, fatto di guerre devastanti e di rivoluzioni rigeneranti, le battaglie femminili e femministe hanno scavato solchi profondi di liberazione e autodeterminazione che avrebbero dovuto trasformarsi in percorsi personali e politici anche per gli uomini.

Già, gli uomini. Scrivo per loro questo editoriale. Perché credo che sia già scaduto il tempo e che ci sia una nuova battaglia da combattere, che li riguardi in prima persona. La battaglia alla mascolinità alla virilità, a quei ruoli indotti di potere, prepotenza, dominio e controllo. Scrivo perché non ci sono più reggiseni da bruciare in piazza. Noi lo abbiamo già fatto e quel tempo è finito. Ora in piazza bisognerebbe bruciare tutti quegli slogan vuoti e nocivi sui quali ancora si fondano i presupposti del dominio di un genere sull’altro.
Gli uomini che non devono chiedere mai, quelli che se piangono sono “femminucce”, se sono gentili sono “checche” e se mostrano una fragilità sono dei falliti. Quelli che si sentono predatori e uccidono la preda nel momento in cui questa mostra anche solo l’idea di voler scappare. Quelli che non sanno accettare il rifiuto e lo trasformano in un motivo di vendetta atroce e definitiva. C’è un enorme lavoro da fare e non si può più aspettare.
Da più di un secolo l’otto marzo è stata la giornata per rivendicare il nostro diritto di essere libere. Libere di scegliere, di lavorare, di avere dei figli oppure no, di accudire la famiglia oppure no, di amare chi vogliamo. Libere di fare sesso senza essere sottoposte alla gogna mediatica, libere di dire di no. Libere di desiderare per noi stesse un presente e un futuro differenti.

La pandemia ci ha cambiate, ma ha riportato a galla un’idea patriarcale che è la stessa che nei marosi si infrange contro gli scogli, per poi rigenerarsi più forte e potente di prima e che torna e ritorna, in un moto che non possiamo lasciare che sia eterno.
Il Covid-19, spesso paragonato ad una guerra, ci ha restituito il ruolo di protagoniste nella nostra “funzione essenziale” di madri, di angeli degli ospedali, delle scuole, delle case di riposo, delle case private. La crisi si è riversata e si riverserà sul nostro spirito di sacrificio e siamo noi la risposta immediata, quella più facile, quella scontata. È il nostro lavoro che diventa il primo ad essere sacrificabile, la nostra “attitudine naturale” alla cura, la soluzione per anziani e bambini. La crisi rafforza la cultura patriarcale e rinvigorisce l’idea della natura femminile, quella che Rousseau ne suo Émile ou De l’éducation diceva essere alla base della divisione dei sessi:

«[…] nell’unione dei sessi ciascuno concorre egualmente allo scopo comune, ma non alla stessa maniera. Da ciò deriva la prima diversità determinabile nell’ambito dei rapporti morali dell’uno e dell’altro. L’uno dev’essere attivo e forte, l’altro passivo e debole; è necessario che l’uno voglia e possa, è sufficiente che l’altro offra poca resistenza»

Per poter cambiare questa cultura, che ancora relega alla natura le cause della sottomissione femminile e della forza maschile, rendendole irreversibili, è necessario costruire una solida e costruttiva alleanza tra i sessi.
Perché le femministe non sono donne che odiano gli uomini, come spesso si sente dire o si legge. Non sono “cagne” rabbiose, isteriche e pazze, ma persone che si interrogano sulle relazioni tra i generi, “sull’unione dei sessi” – come diceva Rousseau – alla ricerca di rapporti sani, paritari, basati sul rispetto e non su dannosi stereotipi.
Ecco perché abbiamo ancora così tanto bisogno dell’otto marzo.

Perché ora più che mai serve creare consapevolezza, servono riflessioni difficili, capaci di scardinare e rimettere tutto in discussione. Proprio a partire da quegli assiomi che la cultura, per fini funzionali, ha ancorato alla natura, ma che in realtà di naturale non hanno nulla e per questo sono mutabili e modificabili.
Non possiamo più né accettare né accontentarci che la violenza sia raccontata come raptus, la gratuità del lavoro di cura come spirito di sacrificio o la maternità come il solo destino femminile.
I primi a non accontentarsi devono essere proprio gli uomini e le piazze di Biella, Torino, Albenga e Potenza di questi giorni, sono un buon inizio. Ora, però, non dobbiamo fermarci.

Ora più che mai c’è bisogno dell’otto marzo, perché solo la libertà delle donne libera tutti.



Mi chiamo Elisabetta Salvini, sono nata a Parma, città dove tuttora vivo. Di giorno insegno lettere a ragazzi e ragazze delle medie, di notte scrivo e continuo a fare ricerca storica e sempre sono femminista.
Ho alle spalle un dottorato di ricerca in storia contemporanea e una laurea in lettere moderne e da ormai più di venti anni mi occupo di storia sociale e di genere. Ho pubblicato numerosi saggi e tre monografie. Sono sposata, mamma di due splendide ragazze e da un anno sono la presidente della Casa delle donne di Parma.



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